domenica 9 luglio 2017

La sindaca e la dottrice

Se leggi questo articolo ci sono due possibilità:

1) Sei uno dei pochi lettori o lettrici del mio blog, hai visto l’articolo sulla mia pagina Facebook, oppure l’hai trovato ricercando qualche parola chiave. In questo caso, grazie della visita e – nel caso in cui tu volessi continuare – buona lettura!
2) Hai seguito un link a questo articolo, link che ti ho dato perché reputo che tu sia interessato/a all’argomento, oppure ignorante. Non “una persona ignorante”, nel senso di ignorante in tutto, in generale e senza appello. Ma ignorante a proposito del linguaggio. Come io sono ignorante in tante altre cose, come tutti sono ignoranti in qualcosa, come tutti, o quasi, viceversa, hanno una conoscenza superiore alla media in qualcosa d’altro.
Non sentirti aggredito: è facile, in questo caso, fare la figura dell’ignorante. Perché quando si parla di linguaggio c’è un problema: non si distingue il corretto uso dalla reale conoscenza della materia.

Il tuo cuore batte, funziona regolarmente e ti auguro che continui così per molti decenni. Questo non fa di te un cardiologo. Lo sai, sì, che non sei un cardiologo? Che, parlando del cuore, probabilmente non puoi che balbettare qualche nozione appresa alle lezioni di scienze delle superiori e che di fronte a un cardiologo che sa il fatto suo puoi solo ascoltare e imparare? Sì, in genere sì, lo sai.

Sai guidare l’automobile, anzi, magari sei un automobilista provetto. Questo non fa di te un meccanico o un’ingegnera. Tant’è che speri che la tua auto sia stata disegnata da un (o una) progettista capace; tant’è che ti rivolgi a un meccanico quando la tua macchina ha un problema che non sia qualcosa che tu possa risolvere con quelle due o tre cose che sai fare.

Sai parlare e conosci l’italiano. Questo non fa di te un linguista o una sociolinguista; uno studioso di fonologia, di morfologia o di sintassi. Anzi, ti dirò di più: la conoscenza della lingua, se addirittura non ha – come sostengono alcuni – delle componenti innate, è in generale inconsapevole. A differenza di uno straniero che impara l’italiano, tu probabilmente non sai a memoria in quali casi l’articolo singolare maschile ‘il’ è sostituito da ‘lo’. Sono persuaso che tu sappia dire correttamente “lo zaino”, “lo gnomo”, “lo scolaro”, “lo psicologo”. Ma non sai elencare immediatamente tutti i casi in cui devi usare tale articolo. Quantomeno ci devi pensare. Ancora: dici “mia mamma”, “mio fratello”, “la mia prozia”, ma non hai idea del perché tu non possa dire “mia prozia” come dici “mia zia”.

Perché, dunque, se non sai, ti ostini a dire la tua su tematiche come l’uso non sessista della lingua, tematiche che dovrebbero discutere solo persone competenti? Perché ridicolizzi i tentativi della Presidente della camera di introdurre la parità di genere nella lingua d’uso?
Devo dirlo schiettamente. Perché. Non. Sai.
Spero di darti qualche spunto di riflessione, entrando nel merito.

Probabilmente ti suonano strane parole come “sindaca” o “prefetta” o “ministra”, così come ti suonano strani “desossiribonucleico”, “ermeneutica”, “apofonia”, “sussiegoso”, “muone”, “bustrofedico”. Sono parole che hai sentito poche volte, se non sei del settore o se non hai dalla tua un vocabolario molto ricco. Devi abituartici, specialmente alle prime, perché questi femminili, che tu lo voglia o meno, entreranno nella lingua d’uso.

“Sono sbagliate” – potresti dirmi. No, anzi, sono forme piuttosto banali nel loro essere corrette: la lingua italiana distingue molto spesso il maschile e il femminile con i rispettivi morfemi “o” e “a”. Ci sono anche altri suffissi ma sono meno produttivi. Sbagliato non è ciò che ti suona sbagliato, ma ciò che non è grammaticale.

“Sono inutili” – mi dirai. No, non sono inutili: servono a descrivere in modo appropriato un fenomeno relativamente nuovo, come il fatto che le donne stiano, seppur faticosamente, conquistando un posto negli organi dello Stato e, più in generale, assumendo ruoli decisionali che prima erano loro preclusi e per i quali quindi non era previsto un sostantivo di genere femminile. “Ma io posso dire ‘sindaco’ per una donna: ‘sindaco’ è anche femminile” – potrai ribattere. Non è vero. “Come fai a sapere che sindaco è solo maschile?” Perché, notoriamente, posso associare articoli e aggettivi maschili ai nomi maschili e femminili ai nomi femminili. Posso dire “il sindaco onesto”, ma non “la sindaco onesto”, né “la sindaco onesta”. Devo dire “la sindaca onesta”. Ogni volta che dico “il sindaco onesto” riferendomi a una donna sto utilizzando impropriamente un nome maschile per descrivere una persona di genere femminile.

“Allora diciamo anche camionistO, autistO e astronautO”. Ognuno può dire quel che vuole, ma se dici “il camionisto” quando puoi dire correttamente “il camionista”, verrai preso per il culo. Perché camionista è sia maschile che femminile. So che potrebbe non essere facile, ma non devi guardare alla A finale, in questo caso, ma al fatto che puoi dire “un camionista bellissimo” o “una camionista bellissima”. Lo stesso dicasi di “presidente”: non fare della facile ironia, dicendo che “La BoldrinA è la Presidentessa”. “Presidente” è un participio presente e quindi è sia maschile che femminile: “il presidente eletto” / ”la presidente eletta”. E no, non tirare fuori “studente” / ”studentessa”, perché studiare è un verbo della prima coniugazione e il participio presente è “studiante”.

“Tutto qui?” No, c’è anche qualche criticità. Ad esempio, alcuni nome di professioni o di condizioni che finiscono in -a non sono nomi anche maschili come “camionista” eccetera. Ad esempio: “la guardia”. “Maria è una guardia molto attenta” ma anche “Mario è una guardia molto attenta”. Perché non introdurre anche la forma “il guardio”? E qui la morfologia deve cedere il passo alla sociologia del linguaggio.
Perché chi vi dicesse che è importante parlare di sindache, ministre e avvocate solo per correttezza grammaticale non dimostrerebbe una grande onestà intellettuale, o perlomeno combatterebbe una battaglia quasi in solitaria. È chiaro che l’urgente rivendicazione grammaticale è di natura politica: politica in senso buono del termine, di quella che pensa alle prossime generazioni e non alle prossime elezioni. Alla base vi è una fiducia nel potere trasformativo della lingua. Perché una lingua in cui trovino posto parole come assessora, questora e primaria è al contempo indice e motore di una società in cui effettivamente le donne possano accedere senza pregiudizi a tale carica e possano scegliere in che modo esercitare le loro funzioni: se essere in tutto e per tutto uguali alle loro controparti maschili, se stabilire che non c’è un modo maschile o femminile di ricoprire una carica o svolgere una funzione pubblica, se, invece, dare un’impronta che loro ritengono essere caratterizzata da una loro appartenenza al genere femminile.

Non mi risulta, invece, che una battaglia del genere sia combattuta dalle guardie maschi che, in minoranza rispetto alle guardie femmine, debbano in qualche modo essere assistite da scelte linguistiche che possano, nella visione del mondo che una lingua d’uso porta con sé, favorire le pari opportunità.

“Ma perché modificare la nostra bella lingua?”. La lingua è un organismo vivente: la tendenza ad un’evoluzione le è connaturata. Solo una lingua che non viene parlata non cambia, e una lingua che non viene parlata, che non segue le esigenze dei parlanti, le innovazioni delle relazioni sociali e della cultura materiale è una lingua morta. La grammatica non è solo normativa, è anche descrittiva: ci dice anche come si parla, non solo come si deve parlare. Forme che possano essere fonte di ambiguità (tipo l’uso scorretto di “piuttosto che”) vengono sì censurate, ma forme che rispecchino vere nuove esigenze e che risultino perfettamente grammaticali vengono accolte, se utilizzate da un buon numero di parlanti.

Scusa se il discorso diventa complesso, ma una grammatica non è una strada senza uscita. I suoi contorni sono sfumati, e assieme a tutto ciò che è effettivamente attestato, vive anche in un’infinità di forme possibili, che possono immediatamente prendere vita, realizzarsi nel discorso di artisti, innovatori, visionari o semplicemente di persone che stanno imparando la lingua. Sei mai stato da una dottrice? Credo di no. Nemmeno io ci sono stato. Un ragazzo afghano a cui insegno l’italiano, invece, c’è stato. “Oggi sono stato dalla dottrice”, mi ha detto qualche tempo fa. L’ho corretto, ovviamente: si dice dottoressa. Ma ho capito benissimo cosa volesse dire; e ho realizzato che non si può sapere a priori come si comporterà una specifica parola. Perché non c’è una regola – se non l’uso comune – per cui si debba dire “dottoressa” come “professoressa” e non “dottrice” come “attrice” o “calciatrice”. E se si dovesse attestare il femminile “dottora”, poi, sarà un ulteriore esempio di varietà e ricchezza di una lingua dalle molteplici possibilità, che la tengono viva.

Lettore, lettrice, scusate la lezioncina, e perdonate se, in una lingua dove i generi maschili e femminili esistono – e non ci possiamo fare niente – magari non sono riuscito a mantenere l’equilibrio in quanto ho scritto. Ma è giusto almeno provarci: la lingua e la comunicazione hanno aspetti impliciti di trattativa, di mediazione. Non c’è perfezione, non c’è un disegno a tavolino. C’è solo il compromesso. Cerchiamone uno che rispetti tutti e tutte.