domenica 29 agosto 2021

Raccogliere le lacrime, raccogliere le idee

Ho deciso di scrivere questo pezzo, ritornando così a un blog che avevo chiuso da anni, perché di nuovo l’esigenza di dire è diventata impellente, perché la stampa insiste nel promuovere, nei riguardi del popolo afghano, principalmente sentimenti di solidarietà e compassione, relegandoli al ruolo di vittime all’interno di un copione che donne e uomini afghani farebbero volentieri a meno di interpretare. Perché ieri, in un tardo pomeriggio d’agosto, il sole illuminava i colori - nero rosso e verde - della bandiera afghana, trasformando piazza della Libertà in uno schizzo impressionista dove vividi e vibranti erano non solo le sfumature cromatiche ma anche le idee e le rivendicazioni che i cittadini e le cittadine afghane residenti sul nostro territorio hanno voluto portare all’attenzione della città e, possibilmente, ad un pubblico ancora più ampio.

Stamattina, sul quotidiano locale, la notizia della manifestazione di ieri era una didascalia a una minuscola foto, dentro un altro articolo. Il pezzo principale – riferendosi a una toccante foto di Fausto Biloslavo – parlava dell’importanza delle immagini iconiche nel suscitare empatia e comprensione della sofferenza altrui. Capire, empatizzare, sentirsi persone buone, eventualmente appendere un drappo del colore appropriato alla propria finestra. Che sollievo! A sentir taluni, basta così poco per cancellare il sentimento soggettivo e la responsabilità oggettiva di essere compartecipi di quanto ora sta accadendo in Afghanistan e di quanto accade in ogni conflitto le cui radici affondano nel più o meno recente passato (e non-passato) coloniale dell’Occidente.
Il popolo afgano, invece, non ha bisogno solo, o forse non tanto, di solidarietà e compassione, ma di essere ascoltato, supportato e rappresentato nelle sue istanze politiche, che ci interpellano non come una nota di colore ma quali cittadini italiani ed europei, elettori, opinione pubblica, consumatori, la cui voce ha il privilegio di dover essere almeno in parte ascoltata, se coerente e organizzata.

Chi di fronte a un’immagine iconica si limita a sorprendersi, commuoversi, indignarsi, "non ha raggiunto la maturità morale e psicologica", spiega Susan Sontag in un testo fondativo dal titolo Davanti al dolore degli altri . La sorpresa commozione manifesta l’ignoranza della propria parziale responsabilità, l’indignazione allude al pensiero che non si possa fare nulla.
La sorpresa, la commozione, l’indignazione, devono essere la via, e non l’ostacolo, ad un’azione sociale e politica. Un’azione che parte dall’ascolto. Cosa chiedono dunque i ragazzi e le ragazze, le donne e gli uomini afghani che ieri hanno dato vita a un composto corteo da piazza Unità a piazza Libertà?

Cosa dicono? Cosa c’è scritto sui loro cartelli?

Auspicano la pace, i diritti umani, la sicurezza per le loro famiglie, che il loro paese, libero dai talebani, possa vivere una stagione di progresso culturale, economico e sociale. Questa è più una preghiera, una speranza. Inshallah.
Ma chiedono – lo domandano a noi – anche corridoi umanitari: chiedono cioè che i cittadini afghani, in particolare le minoranze etniche, politiche, linguistiche, religiose, di genere, non siano obbligate ad affrontare la fatica, l’umiliazione, le spese, il rischio di un viaggio che attraverso il confine con l’Iran, passando per la Turchia, la Grecia, i Balcani, lo sfruttamento lavorativo o peggio, i picchiatori paramilitari croati, i respingimenti alle frontiere, li porti ad approdare qui come clandestini il cui “reato” debba essere sanato dalla richiesta e poi dall’ottenimento dell’asilo politico.
Chiedono che il governo italiano e i governi europei non cedano alla realpolitik di riconoscere l’autoproclamato emirato talebano e non interloquiscano con i suoi rappresentanti. Chiedono a noi di essere differenti da Russia e Cina e – aggiungo io – di considerare attentamente quale sia il male minore.

Sono proposte concrete. Sono formulate in lingua pashto, dari, italiano, inglese, tedesco, ciascuno secondo ciò che può dire e per quanto può dirlo. Ad ascoltarle, lì, eravamo sì e no in venti. Ma in tante altre città d’Italia e d’Europa altre piazze nere rosse verdi hanno detto la loro, e chissà che in questa babele di lingue si possa creare quella connessione, quel miracoloso giungere ad un obiettivo che da sempre vanno cercando la ricercata vaghezza dei poeti e la lucida precisione dei filosofi.

In queste settimane, lavorando come insegnante di italiano a stranieri, ho raccolto alcune lacrime. Ieri sono andato alla manifestazione per raccogliere alcune idee e forse sono riuscito a raccogliere persino le mie.

Ringrazio il fotografo Hafiz Kavosh Turgan per avermi permesso di utilizzare le sue foto.

domenica 9 luglio 2017

La sindaca e la dottrice

Se leggi questo articolo ci sono due possibilità:

1) Sei uno dei pochi lettori o lettrici del mio blog, hai visto l’articolo sulla mia pagina Facebook, oppure l’hai trovato ricercando qualche parola chiave. In questo caso, grazie della visita e – nel caso in cui tu volessi continuare – buona lettura!
2) Hai seguito un link a questo articolo, link che ti ho dato perché reputo che tu sia interessato/a all’argomento, oppure ignorante. Non “una persona ignorante”, nel senso di ignorante in tutto, in generale e senza appello. Ma ignorante a proposito del linguaggio. Come io sono ignorante in tante altre cose, come tutti sono ignoranti in qualcosa, come tutti, o quasi, viceversa, hanno una conoscenza superiore alla media in qualcosa d’altro.
Non sentirti aggredito: è facile, in questo caso, fare la figura dell’ignorante. Perché quando si parla di linguaggio c’è un problema: non si distingue il corretto uso dalla reale conoscenza della materia.

Il tuo cuore batte, funziona regolarmente e ti auguro che continui così per molti decenni. Questo non fa di te un cardiologo. Lo sai, sì, che non sei un cardiologo? Che, parlando del cuore, probabilmente non puoi che balbettare qualche nozione appresa alle lezioni di scienze delle superiori e che di fronte a un cardiologo che sa il fatto suo puoi solo ascoltare e imparare? Sì, in genere sì, lo sai.

Sai guidare l’automobile, anzi, magari sei un automobilista provetto. Questo non fa di te un meccanico o un’ingegnera. Tant’è che speri che la tua auto sia stata disegnata da un (o una) progettista capace; tant’è che ti rivolgi a un meccanico quando la tua macchina ha un problema che non sia qualcosa che tu possa risolvere con quelle due o tre cose che sai fare.

Sai parlare e conosci l’italiano. Questo non fa di te un linguista o una sociolinguista; uno studioso di fonologia, di morfologia o di sintassi. Anzi, ti dirò di più: la conoscenza della lingua, se addirittura non ha – come sostengono alcuni – delle componenti innate, è in generale inconsapevole. A differenza di uno straniero che impara l’italiano, tu probabilmente non sai a memoria in quali casi l’articolo singolare maschile ‘il’ è sostituito da ‘lo’. Sono persuaso che tu sappia dire correttamente “lo zaino”, “lo gnomo”, “lo scolaro”, “lo psicologo”. Ma non sai elencare immediatamente tutti i casi in cui devi usare tale articolo. Quantomeno ci devi pensare. Ancora: dici “mia mamma”, “mio fratello”, “la mia prozia”, ma non hai idea del perché tu non possa dire “mia prozia” come dici “mia zia”.

Perché, dunque, se non sai, ti ostini a dire la tua su tematiche come l’uso non sessista della lingua, tematiche che dovrebbero discutere solo persone competenti? Perché ridicolizzi i tentativi della Presidente della camera di introdurre la parità di genere nella lingua d’uso?
Devo dirlo schiettamente. Perché. Non. Sai.
Spero di darti qualche spunto di riflessione, entrando nel merito.

Probabilmente ti suonano strane parole come “sindaca” o “prefetta” o “ministra”, così come ti suonano strani “desossiribonucleico”, “ermeneutica”, “apofonia”, “sussiegoso”, “muone”, “bustrofedico”. Sono parole che hai sentito poche volte, se non sei del settore o se non hai dalla tua un vocabolario molto ricco. Devi abituartici, specialmente alle prime, perché questi femminili, che tu lo voglia o meno, entreranno nella lingua d’uso.

“Sono sbagliate” – potresti dirmi. No, anzi, sono forme piuttosto banali nel loro essere corrette: la lingua italiana distingue molto spesso il maschile e il femminile con i rispettivi morfemi “o” e “a”. Ci sono anche altri suffissi ma sono meno produttivi. Sbagliato non è ciò che ti suona sbagliato, ma ciò che non è grammaticale.

“Sono inutili” – mi dirai. No, non sono inutili: servono a descrivere in modo appropriato un fenomeno relativamente nuovo, come il fatto che le donne stiano, seppur faticosamente, conquistando un posto negli organi dello Stato e, più in generale, assumendo ruoli decisionali che prima erano loro preclusi e per i quali quindi non era previsto un sostantivo di genere femminile. “Ma io posso dire ‘sindaco’ per una donna: ‘sindaco’ è anche femminile” – potrai ribattere. Non è vero. “Come fai a sapere che sindaco è solo maschile?” Perché, notoriamente, posso associare articoli e aggettivi maschili ai nomi maschili e femminili ai nomi femminili. Posso dire “il sindaco onesto”, ma non “la sindaco onesto”, né “la sindaco onesta”. Devo dire “la sindaca onesta”. Ogni volta che dico “il sindaco onesto” riferendomi a una donna sto utilizzando impropriamente un nome maschile per descrivere una persona di genere femminile.

“Allora diciamo anche camionistO, autistO e astronautO”. Ognuno può dire quel che vuole, ma se dici “il camionisto” quando puoi dire correttamente “il camionista”, verrai preso per il culo. Perché camionista è sia maschile che femminile. So che potrebbe non essere facile, ma non devi guardare alla A finale, in questo caso, ma al fatto che puoi dire “un camionista bellissimo” o “una camionista bellissima”. Lo stesso dicasi di “presidente”: non fare della facile ironia, dicendo che “La BoldrinA è la Presidentessa”. “Presidente” è un participio presente e quindi è sia maschile che femminile: “il presidente eletto” / ”la presidente eletta”. E no, non tirare fuori “studente” / ”studentessa”, perché studiare è un verbo della prima coniugazione e il participio presente è “studiante”.

“Tutto qui?” No, c’è anche qualche criticità. Ad esempio, alcuni nome di professioni o di condizioni che finiscono in -a non sono nomi anche maschili come “camionista” eccetera. Ad esempio: “la guardia”. “Maria è una guardia molto attenta” ma anche “Mario è una guardia molto attenta”. Perché non introdurre anche la forma “il guardio”? E qui la morfologia deve cedere il passo alla sociologia del linguaggio.
Perché chi vi dicesse che è importante parlare di sindache, ministre e avvocate solo per correttezza grammaticale non dimostrerebbe una grande onestà intellettuale, o perlomeno combatterebbe una battaglia quasi in solitaria. È chiaro che l’urgente rivendicazione grammaticale è di natura politica: politica in senso buono del termine, di quella che pensa alle prossime generazioni e non alle prossime elezioni. Alla base vi è una fiducia nel potere trasformativo della lingua. Perché una lingua in cui trovino posto parole come assessora, questora e primaria è al contempo indice e motore di una società in cui effettivamente le donne possano accedere senza pregiudizi a tale carica e possano scegliere in che modo esercitare le loro funzioni: se essere in tutto e per tutto uguali alle loro controparti maschili, se stabilire che non c’è un modo maschile o femminile di ricoprire una carica o svolgere una funzione pubblica, se, invece, dare un’impronta che loro ritengono essere caratterizzata da una loro appartenenza al genere femminile.

Non mi risulta, invece, che una battaglia del genere sia combattuta dalle guardie maschi che, in minoranza rispetto alle guardie femmine, debbano in qualche modo essere assistite da scelte linguistiche che possano, nella visione del mondo che una lingua d’uso porta con sé, favorire le pari opportunità.

“Ma perché modificare la nostra bella lingua?”. La lingua è un organismo vivente: la tendenza ad un’evoluzione le è connaturata. Solo una lingua che non viene parlata non cambia, e una lingua che non viene parlata, che non segue le esigenze dei parlanti, le innovazioni delle relazioni sociali e della cultura materiale è una lingua morta. La grammatica non è solo normativa, è anche descrittiva: ci dice anche come si parla, non solo come si deve parlare. Forme che possano essere fonte di ambiguità (tipo l’uso scorretto di “piuttosto che”) vengono sì censurate, ma forme che rispecchino vere nuove esigenze e che risultino perfettamente grammaticali vengono accolte, se utilizzate da un buon numero di parlanti.

Scusa se il discorso diventa complesso, ma una grammatica non è una strada senza uscita. I suoi contorni sono sfumati, e assieme a tutto ciò che è effettivamente attestato, vive anche in un’infinità di forme possibili, che possono immediatamente prendere vita, realizzarsi nel discorso di artisti, innovatori, visionari o semplicemente di persone che stanno imparando la lingua. Sei mai stato da una dottrice? Credo di no. Nemmeno io ci sono stato. Un ragazzo afghano a cui insegno l’italiano, invece, c’è stato. “Oggi sono stato dalla dottrice”, mi ha detto qualche tempo fa. L’ho corretto, ovviamente: si dice dottoressa. Ma ho capito benissimo cosa volesse dire; e ho realizzato che non si può sapere a priori come si comporterà una specifica parola. Perché non c’è una regola – se non l’uso comune – per cui si debba dire “dottoressa” come “professoressa” e non “dottrice” come “attrice” o “calciatrice”. E se si dovesse attestare il femminile “dottora”, poi, sarà un ulteriore esempio di varietà e ricchezza di una lingua dalle molteplici possibilità, che la tengono viva.

Lettore, lettrice, scusate la lezioncina, e perdonate se, in una lingua dove i generi maschili e femminili esistono – e non ci possiamo fare niente – magari non sono riuscito a mantenere l’equilibrio in quanto ho scritto. Ma è giusto almeno provarci: la lingua e la comunicazione hanno aspetti impliciti di trattativa, di mediazione. Non c’è perfezione, non c’è un disegno a tavolino. C’è solo il compromesso. Cerchiamone uno che rispetti tutti e tutte.

lunedì 15 maggio 2017

Tarare l'odiometro

Qualche giorno fa, a Trieste, è accaduto un fatto oggettivamente odioso. Un tentativo di stupro perpetrato da uno straniero ai danni di una ragazza italiana. L'uomo era iracheno, ma non so se fosse un clandestino, un dublinante, un richiedente asilo, un diniegato, un ricorrente, un rifugiato, un titolare di protezione sussidiara o umanitaria. Ciascuna di queste definizioni indica uno stato giuridico ben definito, e non so quale fosse quello dell'aggressore, ma so che per ognuno di questi stati ci potrebbe essere un modo diverso di rispondere, attraverso politiche mirate e interventi ad hoc, a un fenomeno come la criminalità legata all'immigrazione: fenomeno che non è trascurabile ma neanche diffuso come alcuni pensano, né tantomeno generalizzato; per il quale ci si può legittimamente preoccupare, ma non allarmare, né tantomeno suscitare allarmismi.

Su questo fatto in particolare - sulle cui dinamiche non mi soffermo perché sono ancora tutte da chiarire - così ha commentato la presidente della regione Serracchiani:
La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese
E ancora:
Sono convinta che l'obbligo dell'accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza.

Le sue parole sono state accolte ironicamente come un conversione sulla via di Damasco da parte dei partiti xenofobi e dagli arruffapopoli schiettamente razzisti, mentre sono state duramente contestate da altre forze politiche, che hanno bollato come, appunto, razzista, la presidente della regione.
Lungi da me difendere a spada tratta un'esponente che non mi piace affatto di un partito che mi piace sempre meno. Ma vanno fatti i dovuti distinguo, con alcune piccole considerazioni di insiemistica: non tutto ciò che è discriminatorio è anche sbagliato (se ne può discutere, ma credo che molti ritengano del tutto legittimo non consentire ai minorenni di votare); così come non tutto ciò che è discriminatorio e sbagliato, è razzista (la società in cui viviamo si basa in parte su sperequazioni discriminatorie e sbagliate, ma non hanno a che fare con il razzismo, bensì con un sistema economico di un certo tipo).
Ecco, le dichiarazioni di Serracchiani mi sembrano discriminatorie e sbagliate, ma non razziste: riconosco che la nostra regione (d'accordo, fino a qualche tempo fa, con la nostra città) si è spesa a favore dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati, e le dichiarazioni inopportune di Serracchiani non cambiano la cosa.
Se non è razzismo, cosa anima le parole della presidente della regione?

Leggendo il sottotesto, riappare, improvvisamente, inaspettato, un certo concetto di patto sociale. Ovvero l'idea che lo Stato fa qualcosa per te, viene incontro ai tuoi bisogni, ti aiuta se sei in difficoltà, e tu - anzi "e tu, in cambio" - ti comporti bene, da bravo cittadino, rispettando le leggi, dando il tuo contributo alla società a cui per necessità, per vocazione, magari anche solo per qualche tempo, appartieni o tenti di appartenere.
Ecco, rompere questo patto sociale è davvero odioso. L'idea però che sia "più odioso" (Serracchiani dice "più inaccettabile") per i migranti è peculiare e interessante. Devo confessare che, a pelle, emotivamente, io che lavoro con i richiedenti asilo ogni giorno, sento che in qualche modo è "diverso" quando commettono un crimine. Ma invece di creare un filo diretto tra la prima impressione a una dichiarazione pubblica cerco piuttosto di individuare da quale pensiero, magari rimosso, si possa originare tale idea, per accoglierla o rigettarla a ragion veduta. Faccio qualche ipotesi.

1) La differenza può venire dalla sensazione che i cittadini italiani - e forse qualcuno pensa non alla cittadinanza ma ad altre distinzioni, queste sì più odiose - che i cittadini italiani, dicevo, siano, in qualche modo, almeno in parte, esentati dal partecipare alla pace e al bene comune. Dopotutto è un periodo di forte disgregazione sociale, di conflitto, di crisi: sarebbe lecito, per gli italiani, badare solo ai propri interessi egoistici, mentre ci si aspetta che il rifugiato e il richiedente asilo siano tutti dediti a quella comunità che li accoglie a braccia aperte. E magari - da "buon selvaggio" - possano essere germe per una ricostruzione ingenua, dal basso, del senso di comunità "nostro", che è andato perduto. Dopotutto sono così bravi a fare comunità "tra di loro"... Ecco, sciocchezze. Tante e tutte assieme. Tutti devono impegnarsi a vantaggio del bene comune. Non è che per gli italiani lo standard deve essere badare ai fatti propri, al proprio interesse, e se uno ogni pochi fa qualcosa per il bene comune, "la cosa pubblica" gli appunta una medaglia al petto, un certificato di merito, il sigillo trecentesco, la laurea honoris causa. Mentre, viceversa, lo standard per gli stranieri deve essere comportarsi in modo non meno che integerrimo, senza nessuna pubblicità se non quando qualcuno si comporta male. Bene, meglio, se lo fanno. Ma se diventa una scusa per pretendere di meno dagli "autoctoni", è la morte civile. No, non deve essere la rottura del patto sociale a rendere "più inaccettabile" un crimine fatto da un migrante. A meno che nella stipula di questo patto non ci siano condizioni di partenza diverse, ma andiamo al punto 2.

2) La differenza può essere, banalmente, perché "noi li accogliamo". Ora, a prescindere dall'accoglienza eterogenea che si riesce a garantire a queste persone che passano i nostri confini (il trattamento è oggettivamente diverso di regione in regione, di città in città, da operatore sociale a operatore sociale - a Trieste, e non lo dico perché lavoro nel campo, il trattamento è buono), bisogna riflettere sul perché li accogliamo. Se l'accoglienza è dovuta - così come prevede la costituzione - non stiamo facendo un'opera pia, di gratuità caritatevole, ma stiamo preservando il nostro sistema democratico. Per dirla con le recentissime e altisonanti parole di Juncker, stiamo difendendo "l'onore dell'Europa". Bene ha risposto il presidente del consiglio Gentiloni: che non si può delegare a un solo stato la difesa dell'"onore" - leggasi democrazia e stato di diritto - dell'Europa. Ma ci si limiti all'Italia: la costituzione italiana ci dice, nell'articolo 10, che "lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge". La società progettata dalla costituzione italiana - purtroppo soltanto immaginata - non potrebbe tollerare un comportamento diverso: non accogliere chi ha bisogno ci porrebbe già al di fuori da uno stato democratico. Rivendico la tutela del diritto d'asilo come una mia - di cittadino italiano - "libertà democratica" garantita dalla costituzione, in assenza della quale potrei io stesso chiedere asilo in un paese che si dimostrasse meglio disposto.
Ripeto: non si sta discutendo se la criminalità degli stranieri sia grave o non sia grave, accettabile o inaccettabile, perché è evidente che è grave e inaccettabile. Si sta parlando di un paragone tra un crimine perpetrato da un italiano e lo stesso crimine portato in essere da uno straniero. Se si ritiene che il secondo sia più grave perché il responsabile usufruisce o ha usufruito di uno status o di un sistema di accoglienza, si ammette (o si reputa inconsapevolmente), che l'accoglienza non è dovuta, non è "legale", ma è una concessione arbitraria. Se è questo il pensiero all'origine della discriminazione, meglio sarebbe assicurarsi che il diritto venga garantito a chi ha davvero i requisiti per essere tutelato, facendo sì una discriminazione, ma su base individuale, non generalizzata; e al contempo - ma questa idea è mia personale e già politica in senso lato - offrendo percorsi legali di immigrazione (anche meno onerosi per la collettività) a chi non ha le caratteristiche per godere della protezione.

Ho escluso due possibili casistiche: vedo perché sono sbagliate e sento anche che queste idee possono sfiorarmi, ma non sono radicate nella mia visione del problema.
Eppure non sono ancora soddisfatto, perché continuo a sentire, relativamente ai casi di criminalità dei migranti, un'urgenza più pressante. Non avrei saputo dire esattamente perché, fino a ieri, quando ho parlato con due persone accolte nelle strutture dove lavoro.
Il primo, un uomo adulto, mi ha chiesto cosa è successo, gli ho riferito quel che potevo, lui era imbarazzato e triste. Mi ha detto in francese "così fanno del male non solo alla ragazza, ma anche a noi".
Al secondo, un ragazzo che in migliori circostanze di vita sarebbe un brillante studente universitario, ho chiesto perché non uscisse con quel bel pomeriggio di sole, anche solo per fare una passeggiata. Mi ha detto, in un italiano stentato, imparato però con una velocità sorprendente, che non si sente a suo agio, che si sente osservato, che le persone guardano dove va, cosa fa, se guarda le ragazze.
Per questo, forse, l'accaduto è "più odioso". Genera più odio. Per una persona che compie reati di diversa gravità (furti, spaccio, violenze) le altre novantanove vengono colpevolizzate, diventano oggetto di sospetto, di discriminazioni gravi o meno gravi, di pregiudizi e preconcetti, di strumentalizzazioni. Tra queste - e il cerchio si chiude - quelle di Serracchiani, ma anche quelle dei suoi detrattori accaniti.

domenica 12 febbraio 2017

Eptapode A2. Riflessioni sconnesse a margine e al centro di Arrival

Chi pensa di fare una recensione obiettiva, asettica, di un film, o è un vero professionista – e in questo caso la sua obiettività sarà tale all’interno di in un paradigma condiviso – oppure coltiva una pia illusione: che sia possibile scrivere d’altro senza scrivere di se stessi. Stavolta non proverò neanche a parlare solo del film e inizierò da me.



Lavoro in una onlus che si occupa di accoglienza dei richiedenti asilo; conosco un sacco di ragazzi pakistani afgani, iracheni, bengalesi e di altre nazionalità. Mi occupo tra l’altro di istruzione e formazione: tengo i contatti con i docenti della scuola pubblica e di altre istituzioni che forniscono loro i corsi d’italiano e professionalizzanti. Insegno io stesso la mia lingua madre, quando non sono impegnato in attività che a torto o a ragione sono da considerare più urgenti.
Sono andato a vedere Arrival con un giovane afgano che ormai considero un amico. La sua lingua madre è il dari, il nome che si dà al farsi (che poi sarebbe il persiano) in Afghanistan, nella regione settentrionale, dove abitano gli Hazara, popolo che parla questa lingua. Il mio amico non è qui da molto, ma parla un italiano sufficiente a comunicare quasi sempre in modo autonomo, tra un A2 e un B1, direi, secondo il quadro di riferimento europeo. L’ho invitato al cinema nella speranza che capisse a grandi linee il film, comprendendo una buona parte dei dialoghi.
Ad un certo punto, però, ho sperato che non capisse. È stato quando il colonnello Weber ha chiesto alla professoressa Banks di provare a tradurre la lingua degli eptapodi “perché ci ha dato una mano con il farsi”. Sono sprofondato nella poltrona a sentire tale sciocchezza, che così parafraso: “Giacché hai miracolosamente “decifrato” una lingua parlata da cento milioni di persone, per la quale ci sono corsi all’università e vocabolari reperibili in tutte altre le altre lingue, saprai gestire anche una lingua aliena, giusto?”.
Certo, anche la dott.sa Banks sembra perplessa per la superficialità del militare; certo, nel libro di Chiang il paragone (ma dice che non c’è paragone) è con le lingue delle popolazioni amazzoniche. Certo tutto va contestualizzato e interpretato. Ma, infine, come affrontare con l’afgano il fatto che, per Hollywood, e quindi per la fonte del nostro immaginario, tra lo straniero e l’alieno non c’è una differenza apprezzabile?
Chi ha studiato un po’ di fantascienza o un po’ di legge sa che “alien”, nei paesi di lingua inglese, era in origine, e spesso è ancora, un termine utilizzato per designare lo straniero percepito come ostile. Alieni erano definiti i Cinesi nelle leggi di espulsione di fine ottocento, alieni probabilmente sono o saranno i clandestini che Trump vuole cacciare e i regolari che non vuole far entrare. Ma in fondo anche la fantascienza, quel genere tanto trasformativo-evoluto-progressista, accetta di buon grado che l’alieno sia immagine e figura dell’altro da sé, in termini di cultura, provenienza, lingua, genere. Ed evidentemente lo accetto anch’io, visto che non riesco a fare a meno di pensare che il tema al centro di Arrival, il linguaggio, mi riguardi particolarmente in questo momento della mia vita; che sia anche – riprendo il titolo del racconto lungo di Ted Chiang – una delle “Storie della mia vita”.

Lingua farsi a parte, Arrival è un film stupendo. Gli attori sono adeguati (ho visto il film in italiano e non mi sbilancio), la musica accompagna il film in modo discreto e (quindi) eccellente: riascoltandola se ne può apprezzare anche consapevolmente la qualità. La fotografia è eccezionale e le navi degli Eptapodi, quasi-atterrate sul nostro pianeta, fanno la loro figura. Non c’erano nel libro, o meglio, forse c’erano ma erano in orbita. Al loro posto, c’erano centododici postazioni di comunicazione, specchi o schermi attraverso i quali gli esseri umani potevano comunicare con gli eptapodi. Ma la fascinazione hollywoodiana per il BDO, il big dumb object, non viene mai meno, ed è giusto così. Peraltro il film non ha rinunciato all’idea del looking glass, e mi piace ricordarlo a qualche giorno dalla scomparsa di Todorov, che diceva che gli strumenti ottici e le facoltà dello sguardo sono alla base di ogni narrazione fantastica.
La trasposizione non è stata letterale, ma lo spirito del racconto si è preservato ed è raro che si possa dire, come in questo caso, che un vero racconto di fantascienza sia diventato un vero film di fantascienza. “E della migliore fantascienza”, direbbero i puristi, membri della lightsaber unappreciation society.
La componente dinamica, di conflittualità non solo interiore ma esterna, che penso sia necessaria in un film, è stata introdotta egregiamente: non lo leggerete spesso da me, ma le scene col generale cinese sono una valida aggiunta al libro.

Ho detto che il tema principale è il linguaggio. Secondo me lo è, ma forse è anche perché non sono capace di fare dissertazioni sul tempo e sul teorema di Fermat: prenderò per buone quelle di chi ha scritto che è solo una categoria della nostra percezione. A me interessa, appunto, il linguaggio: in particolare l’idea che le strutture sintattiche o semantiche (di significato) di una lingua possano modificare le suddette categorie della nostra percezione. Così suggerisce l’ipotesi di Sapir-Whorf, su cui si è molto dibattuto e che secondo molti linguisti è un assioma arbitrario e non dimostrato. Secondo i due studiosi, una lingua non è solo uno strumento per comunicare dei contenuti, ma è essa stessa fatta di contenuti, inseparabili dal modo di trasmetterli. Nel delimitare le cose con una parola non indica soltanto un referente, ma lo circoscrive; nel collegare causalmente due fatti – e qui estrapolo Sapir-Whorf a vantaggio della lettura del testo di Chiang e del film – non descriverebbe una causa, ma istituirebbe il concetto di causa, ravvisando arbitrariamente una connessione naturale e temporale laddove l’unica connessione è quella sintattica. Secondo S-W gli eschimesi, che hanno tante parole per descrivere i diversi tipi di neve, avrebbero un cervello anche più predisposto a riconoscere le differenze nella neve. Allo stesso modo, la percezione dei colori sarebbe più accurata nelle persone che parlano una lingua dove i nomi dei colori sono in numero maggiore. E, per parlare del tempo, le lingue in cui il futuro è un “tempo” (ovvero principalmente una collocazione temporale di un’azione) e quelle in cui è un “modo” (ovvero un modo di rapportarsi del parlante ad un’azione) veicolerebbero diverse idee del futuro come ineluttabile o in divenire; predeterminato o modificabile dal libero arbitrio.
L’idea di base di Chiang è che la lingua scritta degli Eptapodi abbia una tale struttura da spezzare la comune percezione di causa-effetto, strettamente legata alla linea del tempo, e che ciò consenta a chi la utilizza di vedere il futuro e il passato sullo stesso piano su cui è arbitrariamente posto il presente. Il dono che gli Eptapodi vogliono fare agli esseri umani – e qui il film è più esplicito del libro – è la loro stessa lingua, la facoltà quindi di astrazione dal tempo presente, posseduta dalla dott.sa Banks una volta appreso l’Eptapode B.
Nel libro gli alieni sono – così dicono – degli osservatori. Nel film viene introdotta l’idea che essi avranno bisogno dell’aiuto degli esseri umani tra tremila anni. L’insegnamento della loro lingua scritta è un investimento: vogliono modificare l’uomo attraverso quello che W. S. Burroughs chiamava il virus del linguaggio. Vogliono renderli più attenti al futuro, più disponibili ad antivedere le conseguenze delle loro azioni; vogliono donare loro saggezza in modo che la lingua diventi strumento di empatia. Magari il loro pianeta subirà un cataclisma ed essi avranno bisogno di un posto dove stare, tra qualcuno che, almeno per qualcosa, assomigli a loro.



Tra libro e film tanti altri sono i concetti legati alla linguistica. Molti sono i rudimenti, che si possono imparare alle prime ore di un corso universitario di linguistica o filosofia del linguaggio, ma l’estrapolazione in ambito xenolinguistico è veramente apprezzabile. Mi sono tornati in mente, così come mi tornano in mente spesso quando insegno ai miei ragazzi, gli aneddoti e le idee che mi hanno comunicato due ottimi docenti dei corsi citati sopra. Conoscevo già l’aneddoto, vero o falso, dei canguri, citato sia nel film che nel libro. Ma ancora più gustoso è quello del monte “Somia”: un poco accorto etnolinguista attribuì tale nome a un rilievo, dopo che il montanaro a cui l’aveva chiesto gli aveva risposto, in dialetto, “non lo so mica”. E che dire del coniglio, che lo studioso alle prese con una lingua mai studiata da nessuno vede passare e indica all’indigeno? Appresa la parola ad esso relativa, potranno essere d’accordo d’ora in poi, a pronunciarla quando vedono un coniglio passare. Ma l’etnolinguista non saprà mai se l’indigeno vede l’essere come un “coniglio” o come uno “stato ininterrotto di coniglità”.

Ritorno all’attuale Storia della mia vita. Vedo tante persone che stanno imparando l’italiano. Osservo come il loro linguaggio non verbale (il volume della voce, la prossemica, la gestualità) cambi secondo che parlino la loro lingua madre, l’inglese o l’italiano. Sono terrorizzato dalla responsabilità quando vedo che coloro per i quali sono stato uno degli “informatori” (così si dice in gergo tecnico) italiani più rilevanti, hanno preso qualche tratto del mio idioletto e della mia mimica. Spero che il mio virus non sia dannoso.

Da parte mia, cerco di imparare qualche parola di Dari, di Pashto, di Urdu, con la certezza – dite pure “con l’illusione un po’ romantica” – che anziché andare a riempire una scatola cranica di nozioni, la sgombri da quel po’ di pregiudizio che ancora vi risiede.



Purtroppo non conosco l’eptapode: la presenza dell’amico afgano in Italia non so come andrà a finire. La burocrazia è lenta e non si può sapere se le persone incaricate di prendere una decisione saranno umane.

Però già so che in qualunque modo le cose andranno a finire, il gioco sarà stato non a somma zero.

venerdì 6 gennaio 2017

Memento extingui. "Dinosauria" e la letteratura dell'antropocene.

Ciò che tutti, ma proprio tutti, sanno dei dinosauri, è che essi si sono estinti a seguito di un evento catastrofico.
Il fascino che tali esseri esercitano su molti bambini e su non pochi adulti dipende anche da questa peculiare circostanza: la loro storia sul nostro pianeta può dirsi conclusa, temporalmente delimitata, in un modo che, con qualche approssimazione, possiamo dire netto.
E poco importa se le estinzioni di massa sono state diverse e differenti; se il nostro pianeta, oltre che dai più noti dinosauri, e stato percorso da molte altre specie che sono scomparse o si sono evolute. Perché l'improvvisa, spettacolare cesura biologica provocata dal meteorite cretacico ci affascina e ci somiglia, solletica la nostra predilizione per le scelte radicali, quelle con le quali ambiamo a lasciarci ogni cosa alle spalle, ad abbracciare il nostro passato dall'esterno, come altro da noi.
I dinosauri sono dunque una materia dominabile e circoscritta, qualcosa che, con curiosità, pazienza ed esercizio mnemonico possiamo padroneggiare. Il paleontologo, che non può osservarne il comportamento o ascoltarne la voce; che in rare occasioni può vederne i tessuti come apparivano in vita, è percepito più che altro come un tassonomista. Il suo compito è storico: tutte le discipline che deve frequentare per svolgere al meglio i suoi studi vengono infine ricondotte a un esigenza di ordine sistematico, la stessa che distingue un archivio storico da una libreria o biblioteca contemporanea: non vi è differenza tra novità e recupero.
Per questo non mi stupisco se la copertina di Dinosauria, raccolta di racconti edita da Pendragon per la curatela di Lorenzo Crescentini, ha sullo sfondo quella che potrebbe essere la trama di una roccia sedimentaria così come la superficie consumata di una pergamena.



Il volume, nella copertina, nelle illustrazioni di Marzio Mareggia che sanno di antico, ma anche nel titolo arcaizzante, si propone esso stesso come un reperto, una raccolta di testimonianze provenienti dal passato o, meglio, dal presente ad uso del futuro. Perché i racconti ivi contenuti - lo sottolinea il curatore nell'introduzione - parlano sì di dinosauri, ma parlano anche di noi. E se Crescentini raccoglie i sei testi sotto il minimo comune denominatore (un po' sentimentalistico) della "famiglia", io propendo per un'altra lettura complessiva, quella che accomuna la sorte di dinosauri e homo sapiens: entrambi, in quanto specie, hanno una storia evolutiva con un inizio e una fine. Entrambi, i primi per distruttiva casualità i secondi per sconsideratezza e inadeguatezza all'esistenza, sono destinati e votati all'estinzione.



*** Da qui in poi mi sento in dovere di segnalare un monumentale SPOILER ALERT ***



Il racconto che più letteralmente segue questa interpretazione è posto (con deroga all'ordine alfabetico) al centro della raccolta. Si tratta di Tempo d'estinzione, narrazione di Yuri Abietti che segue uno schema classico della letteratura fantascientifica, quello per il quale chi torna indietro nel tempo si trova a provocare l'evento che voleva semplicemente studiare o impedire. Un giornalista viene invitato a redarre un articolo informativo-apologetico su un centro di ricerca, fondato nel Cretaceo per studiare l'estinzione dei dinosauri. L'obiettivo è convincere l'opinione pubblica della bontà e della sicurezza dell'impresa, perché un'associazione contraria ai viaggi nel passato in quanto pericolo per la continuità temporale, sta facendo troppa pubblicità a sfavore. L'associazione approfitta del wormhole aperto per il giornalista per compiere un attentato, che chiuderà il cerchio secondo lo schema a cui si è accennato sopra. Sin dalle prime pagine del racconto il lettore che non sia completamente a digiuno di fantascienza può intuire come andrà a finire, ma ci sarà comunque un effetto sorpresa, un po' gratuito ma interessante, che chiuderà il cerchio più di quanto il lettore possa attendersi. Il più consono a quello che secondo me è lo spirito della raccolta, forse non è il racconto migliore. A rovinarlo un po' è la scarsa credibilità del personaggio principale, il giornalista, che ha la funzione narrativa di giustificare l'infodump. Cialtrone e incompetente a tal punto da non sapersi spiegare come è giunto lì e da aver bisogno di dettagli sui dinosauri che anche i bambini che leggono i libri illustrati potrebbero sapere, non si capisce come il giornalista sia stato scelto per una responsabilità del genere, e il fatto che anche gli altri personaggi lo rilevino è una consolazione solo parziale.

Anche il racconto che chiude la raccolta SETI, di Andrea Viscusi, abbozza un parallelo tra l'estinzione dei dinosauri e quella dell'uomo. La seconda, nel racconto, non avviene, ma uno dei personaggi che nel corso del narrazione si pone oggettivamente dalla parte del torto, la esclude categoricamente, cosa che suona come "le ultime parole famose". La vicenda rimbalza tra un passato di sessantasei milioni di anni fa (in cui una razza aviaria di sauri si sta distruggendo in una guerra mondiale) e il tempo presente o un immediato futuro, in cui un paleontologo, uno pseudoscienziato e l'ex direttrice del programma SETI, ribattezzato "Search for ExtinctTerrestrial Intelligence", discutono sulla possibilità che una specie autoctona terrestre possa, prima dell'uomo, aver costituito una civiltà evoluta, poi scomparsa. Così risponde la donna, nel timore di vanificare il lavoro di una vita: “«Ma non può essere!» tagliò corto lei. «Non può esserci stato qualcosa del genere, in un passato così remoto. L’intelligenza non può scomparire, una volta che si manifesta. Una civilizzazione avrebbe trovato il modo di sopravvivere, come stiamo facendo noi»”. E forse sarà proprio per questa reazione che l'umanità dell'antropocene non sopravviverà a se stessa, per l'incapacità di porre fine al "paradigma antropocentrico".
Viscusi è ottimo narratore, capace di indirizzare la suspance verso la curiosità e non verso il colpo di scena, che sembra evitare accuratamente. La sua fantascienza è del tipo che preferisco, con citazioni della cultura fanta-pop tipo gli OOPArt e gli Annunaki, inseriti come se niente fosse in un racconto per il resto serio.

All'antropocentrismo e alla necessità di attuarlo fino in fondo pare credere Stefano Paparozzi, o almeno quello che sembra il suo alter ego narrativo: Giorgio, genetista o bioingegnere protagonista di Pranzo di Natale. Paparozzi riesce ad imbandire un buon racconto rivoluzionando e attualizzando lo schema non nuovo dei "pranzi di Natale" che mostrano l'evoluzione dei rapporti famigliari o il susseguirsi delle generazioni attraverso il focus sul desco prandiale del 25 dicembre. Lo rivoluziona coraggiosamente e con successo perché riesce a descrivere una situazione dove predominano il dialogo e lo scontro verbale senza inserire neanche una battuta di discorso diretto. Lo attualizza perché i due fratelli protagonisti, Giorgio e sua sorella Martina, animalista-ecologista-biodinamicista, non litigano per questioni di politica-partitica, o di vecchi rancori personali, o per motivi economici, ma per la visione della scienza e della tecnologia. Al centro dell'ultimo pranzo di Natale descritto da Paparozzi, vi è la presentazione da parte di Martina di un pollo arrosto, che forse - lo anticipa anche il nome di Medea che appare come un fulmine a ciel sereno - non è altro che una delle creature ibride uccello-dinosauro, create dal gruppo di ricerca di Giorgio, creature sottratte dai laboratori da un'associazione animalista.
Il difetto del racconto di Paparozzi è che diventa troppo didascalico. Dopo il primo dettagliato resoconto delle opinioni di Giorgio e di Martina, che funge da ottima caratterizzazione dei personaggi, il tono si fa didattico e rispecchia più la retorica di un attivista che la prosa misurata di un narratore.

Di ibridazione e ingegneria genetica scrive anche Davide Camparsi nel suo Sauropatia. La storia racconta di un gruppo di ventenni affetti da sauropatia congenita, che presentano ciascuno dei tratti mutati in direzione di uno dei più famosi dinosauri di sessantacinque milioni di anni fa. Ciascuno di loro ha un nome che, per volontà del direttore del GenART, azienda dalla quale sono sorti, riprende quello della specie d’ibridazione. La trama verte sull'incontro, dopo molti anni, di tutti i giovani sauropatici e del direttore della GenART, che aveva promesso di curarli. La promessa non è stata mantenuta, ma a costituire una nuova promessa per il futuro sarà il figlio di due dei giovani protagonisti, quasi per nulla affetto dalla mutazione dei genitori. Tra i vari racconti della collettanea, Sauropatia è il più equilibrato sulla linea che va dall'estrapolazione fantascientifica (ha idee che mi sembrano buone e, con la giusta sospensione dell'incredulità, appunto, credibili) all'interesse per la caratterizzazione psicologica e umana dei personaggi. A tratti la narrazione è toccante, come quando il giovane Steve incontra la vecchia femmina di dinosauro con cui lui e i suoi amici giocavano da bambini. Camparsi non si risparmia il vezzo - e ciò è apprezzato - di utilizzare in modo consueto alcune immagini o parole di ambito dinosauresco, come quando scrive di "come le cose spesso cambiassero all’improvviso, estinguendo in un lampo tutte le certezze precedenti" e poi "Pensava ad altro. Al passato che tornava sempre".

Negli ultimi due racconti, quello d'apertura - Strappo, di Roberto Bommarito - e Elias Goodwin, l'ultimo cacciatore di dinosauri, di Davide Schito, la componeente intimista ed esistenziale dell'idea di dinosauro ha la meglio su quella fantascientifica ed estrapolativa.
Attraverso una prosa molto audace che richiama un certo realismo magico, Bommarito ci porta a seguire le fantasie cretaciche di Caino, un bambino che vive una situazione familiare difficile ed è marginalizzato dai suoi compagni di scuola. La sua fuga dalla realtà è anche quella del lettore, che viene abilmente messo nella condizione di confrontare le sue illusioni e i suoi autoinganni con quelli del protagonista, reso con una focalizzazione al contempo straniante e avvolgente.
Con Elias Goodwin, invece, assecondiamo malinconicamente le illusioni di un uomo al termine della sua vita. Veterano del Vietnam, in quella sporca guerra Elias ha perso il suo unico amico, appassionato come lui di dinosauri e ossessionato dalla presenza di uno di essi in un canyon nello Stato dello Utah. Persi anche altri membri della sua famiglia, estinta anche la moglie, Elias fa sua l’ossessione per la Bestia, sia per onorare l'amico defunto, sia per evitare l'estinzione egli stesso, assurgendo ad eroica immortalità. Un giorno si sveglia con la certezza e, apparentemente, con le prove di averla uccisa, ma senza ricordarsene. La sua vita, fino a quel momento dedicata all’impresa, perde senso. Elias si perde nei ricordi, e nel racconto si rincorrono paragrafi di memorie e di narrazione in tempo reale. Il racconto, dopo la dipartita del protagonista, si chiude secondo il topos, comune ma efficace, del "e se non fosse tutta una fantasia di un vecchio pazzo?".

Complessivamente, considero Dinosauria un buon volume, adatto non solo a chi è appassionato di antichi mondi scomparsi, ma a chi vive con passione questo difficile, pericoloso, commovente, disturbante, meschino mondo attuale.

sabato 24 dicembre 2016

Trilogia degli incompetenti

Documento 35576425a, chip di memoria oloquantistica, ritrovato sui detriti Yomarus III dalla Supreme Voyager 342. Seduta del fu Consiglio Intergalattico. Frammenti. Audio compromesso. Seguono documenti 35576425b, c, d.

«[...] di oggi sia proficua, per decidere ciò che è meglio [...]»
«[...]rappresentino un pericolo per [...]»
«[...] discrepanza tra le con... [...] ma soprattutto tra la tecnologia e la levatura [...]»
«A ciascuno degli ambasciatori vengono ora trasferite le [...] secondo il metodo prescelto da ognuno»
[Piccoli schermi olografici si aprono di fronte a una buona metà dei presenti; altri si infilano in qualche orifizio uno spinotto fuoriuscito dai banchi del senato; alcuni sollevano cosmicamente la testa per entrare in meditazione.
L'ambasciatore Ghorasz-Nhour ingurgita una poltiglia grigiastra, con grande detrimento personale e dei vicini]




Il mondo che cresce

Conoscere i nomi di tutte quelle piante, le loro flessibili o inflessibili geometrie, le loro sfumature di colori e odori gli dava un senso di pace e di sicurezza. Erano nomi che nessun altro sapeva: lui stesso li aveva stabiliti, adeguandoli per quanto possibile alla variegata vita vegetale che prosperava su Dawkins. Ma aveva la sensazione di averli appiccicati come post-it su una superficie troppo ruvida: presto se ne sarebbe andato, ed essi sarebbero caduti uno ad uno, senza rumore, prima ancora che il mite inverno afelico strappasse dai rami le foglie decidue.

Dawkins era un raro caso di pianeta botanico. Non c’erano animali superiori veri e propri, autonomi. Tutte le creature che si erano evolute lo avevano fatto all’ombra della vita vegetale: tutte erano ibridi o simbionti, spesso specie-specifici. C’era il Pinoides arborescens e l’Apis pinicola var. arborescens. C’era la Ledeburia megalocristata e il suo specifico verme. Il Platanus nucifera var. tarsiis e il relativo tarsio. Questo si arrampicava sugli alberi, coglieva le grosse capsule, le portava lontano e le frantumava contro una roccia, per suggerne il succo, liberandone così i semi. Enrico lo guardava ammirato e la mente ritornava a vaghi ricordi universitari: per tutti questi animali, gli alberi e le piante erano cibo, rifugio, alcova. Sapeva che si trattava sempre di coevoluzione e che era superfluo domandarsi se gli animali si fossero adattati alle piante o se queste avessero in qualche modo addestrato, addomesticato gli animali. Ma nel caso di Dawkins propendeva decisamente per questa seconda ipotesi.
Enrico, botanico lui stesso, riusciva a immaginarsi in questa vita botanica, a trovarla sensata. Il tempo che si trascorre colle piante è fatto di silenzi corrisposti, di cure amorevoli e secrete cure, di disperata vulnerabilità. Voluttà d’acqua e di sole, bellezza estatica, immobile o ghermita dal vento, modellata da milioni di primavere estati autunni inverni.
Enrico viveva perpetuamente uno strano rapimento, come quello che si prova quando ci si risveglia nel primo pomeriggio, si guarda il cielo, le case, gli alberi color pastello e si gode del sole che illumina anche il nostro volto. Prima di rendersi conto di chi si è, di cosa si debba fare e che in fondo si è soli a questo mondo.
Quale mondo? Ormai il suo mondo era questo, Dawkins. Della sua vita precedente – poteva chiamarla così? – ricordava sempre meno. La sua memoria era sbiadita, come se appartenesse a qualcun altro. Persino i ricordi più recenti erano stranianti e confusi. Aveva provato la solitudine, l’ingombrante angosciosa presenza di noi stessi aggravata dall’assenza degli altri: com’era stato possibile? Poco a poco – era qualche settimana fa o un tempo remoto? – si era avvicinato a Clarissa Genchi, la genetista della squadra: il suo compito era modificare le specie che si fossero rivelate utili – utili? – dotandole di una variabilità che consentisse loro di essere portate su altri pianeti con un minimo di accorgimenti, di quelli soliti: resistenza al caldo o al freddo, alle radiazioni, alla stasi temporale necessaria al viaggio iper-luce. Il lavoro congiunto di evoluzione casuale e di finalità umana era il binomio perfetto. La progettazione di una specie ex novo non era nelle possibilità degli esseri umani perché richiedeva una capacità di calcolo ancora ineguagliata: erano necessari un pianeta e un ecosistema; e le centinaia di migliaia, i milioni di anni, erano le unità di computazione minime per produrre da zero una forma di vita, per affinarne la morfologia e i meccanismi regolatori. L’uomo, però, era in grado di cogliere queste potenzialità, di sfruttarle appieno, di forzare la sopravvivenza anziché di conseguirla attraverso innumerevoli tentativi.

A tutto ciò Enrico non pensava quando lui e Clarissa erano stati aggrediti da un branco di tarsi insolitamente lontani dai loro platani. Le bestie, una dozzina, erano accorse verso di loro, brandendo pietre e bastoni; li avevano atterrati e con ferocia avevano colpito i loro caschi fino a che questi non si erano rotti. Poi se n’erano andati in fretta, mentre l’odore prorompente di Dawkins invadeva le narici dell’uomo e della donna. Enrico e Clarissa si erano tolti le pesanti tute e si erano presi per mano, intrecciando le dita. Insieme, a piedi nudi sul muschio, erano corsi al seguito d’un vento ebbro, fino ad arrivare a una Quercus nutrix, la più grande che avessero mai visto. Nei recessi delle sue radici, in un talamo naturale, la tiepida carne dell’albero aveva avvolto i loro corpi attorti e frementi, aveva accolto i loro pensieri, serbandoli come il più grande dei tesori.

Ricordi: erano suoi? Perché ricordava Clarissa ora come amante ora come madre? Se voleva rimanere su Dawkins, cosa lo spingeva invece ad andarsene in tutta fretta, ad accorrere all’astronave che si stava preparando a partire? Nudo, con una manciata di semi stretti nel pugno, Enrico si precipitava al portellone che aveva cominciato a chiudersi. Altri lo seguivano. E un altro Enrico, da dentro, lo guardava incredulo. Enrico di fuori poteva indovinare le ultime esperienze del suo omonimo: il ritorno angoscioso all’astronave, le visite mediche, il periodo di decontaminazione, l’inquietudine per le conseguenze delle proprie leggerezze. Capiva e non capiva quella paura, così come capiva e non capiva il senso delle sue parole.
«Ce ne sono a decine, simili a me o alla dottoressa Genchi, o a McGregor o alla Dimitrova. Vengono verso di noi, vogliono appropriarsi della nave. Tentiamo un decollo di emergenza, ma non so per quanto ancora riusciremo a respingerli».
Sì, la descrizione corrispondeva al vero. Ma cosa c’era di male? Per quale assurda ragione stavano ostacolando il mondo che cresce?


Propensioni

Un altro brusco risveglio nel cuore della notte. Gabriella stringeva le palpebre, provava a rilassarsi, a dormire. Ma non appena prendeva sonno era di nuovo lì, sul pianeta Hawking. Brutali grandinate, impietose tempeste di sabbia. “Sollevare i pannelli! Abbassare i pannelli! — l’aveva ordinato migliaia di volte — Interrare il modulo! Emersione!”. La struttura Bioxen obbediva a ogni suo comando, mentre fuori si rincorrevano cataclismi.
Di là dalla spessa parete del modulo abitativo poteva udire un’eco lontana: era la sua voce che mormorava nel sonno. Si ridestava, scopriva di essere di nuovo a casa. Una brezza leggera faceva danzare i petali dei ciliegi nel viale alberato e le finestre cozzavano l’una contro l’altra quando uno sbuffo appena più audace spirava tra i tetti dei palazzi in stile trans-contemporaneo.

Hawking. Colossale deposito di terre rare e metalli pesanti. Forme di vita: nessuna. Pozze di mercurio. Tornado grandi poco meno di un continente. Come dominato da un’intelligenza malvagia, il pianeta avrebbe scatenato tutta la sua furia contro ogni base azotata che avesse tentato di diventare qualcosa che striscia, vegeta, fluttua, si moltiplica, assecondando la naturale propensione dell’universo a soggettivarsi. “Schermo anti-radiazioni! Liquido decongelante!”.
Quant’era piccola la galassia quando Gabriella era bambina. Pochissimi, eroi o folli, intraprendevano viaggi senza ritorno verso destinazioni remote tra le stelle, ma la maggior parte dell’umanità restava coi piedi per terra, nel sistema solare. Poi, proprio quando la promettente giovane donna otteneva l’abilitazione per l’astronautica civile, la velocità iperluce aveva spianato la strada allo sfruttamento degli esopianeti e spalancato le porte di altrettanti inferni.

Tutta la sua squadra era stata inghiottita da un improvviso inabissamento del terreno impossibile da prevedere. Hawking era crudele e astuto. Lei però era stata risparmiata, per trascorrere lì, nell’ozio e nel rimpianto, parte dei suoi anni migliori e poter ritornare infine sulla Terra, dove le vetture solari scivolavano silenziose e leggiadre sopra le città-giardino, dove le vecchie signore si affaticavano pacifiche lungo i viali, senza trovare qualcosa di cui lamentarsi. Dove nei giorni di pioggia i ragazzi correvano a casa coi droni sopra la testa, benedicendo segretamente quell’opportunità di desiderare il sole.

Ma lei non riusciva più a goderne. In piedi, davanti alla finestra, spiava la notte silenziosa da dietro le tende che appena ciondolavano. Tutto era così provvisorio, così futile. Hawking le era penetrato profondamente nell’anima e vi dimorava sottoforma di inquietudine strisciante, di turbamento mal sopito. Un mostro fatto di schianti inattesi e di vorticose rocce acuminate le strappava ogni speranza e lei si ritrovava a respirare affannosamente e a guardare con risentimento e dispetto i gerani che traboccavano dai balconi del vicino. A desiderare che rinsecchissero, che divenissero polvere su polvere.

Una notte, inaspettatamente, la sorprese il ricordo di quel giorno, quell’unico giorno, poco prima di essere recuperata, in cui su Hakwing tutto era calmo. “Apertura ingresso”. Uscì dal modulo abitativo. Trattenne il fiato, perché si sentiva respirare. La sua anima si disperse in quella splendida, infinita distesa di nulla che forse valeva tutta quella tribolazione. Poi ritornò in se stessa. Non da sola.

Quella notte, a quel ricordo, si alzò solenne dal suo letto e si diresse verso la porta finestra. La maschera di imperturbata dignità che aveva indossato per molti anni aveva ormai i capelli grigi. Gabriella aprì la porta-finestra e si sistemò a piedi nudi sul balcone: la superficie era intollerabilmente tiepida.
La comandante alzò le braccia al cielo, assecondando la naturale propensione dell’universo all’essenzialità.

Nessun urlo, un singolo tonfo, anche la strada era tiepida, detestabile. Fu come uno sbattere di imposte.

Dapprima tutti pensarono solo che il vento si fosse fatto appena più audace...


Nel tempo degli dei falsi e bugiardi

Esther accese il proiettore olografico e la sua tuta divenne un rigoglio di rampicanti con fiori carnosi e un gaio svolazzare d’insetti simili ad api e farfalle attorno ad essi. Rivolse al collega uno sguardo malizioso e sbattè le ciglia. «Non dimenticarti» disse, scostandosi una ciocca di capelli rosso fuoco, «il fumo».
«Certo mammina terra», rispose Diego. «O meglio: il vapore acqueo. Stai per fare un maestoso ingresso ninfale»
«Fa lo stesso. L’ultima volta te ne sei dimenticato e mi hai fatto fare una figura di merda»
«Non è proprio così, bella: la colpa è di Tekura. Il tuo abito somigliava a quello dello scemo del villaggio»
«Presso gli Hoatiani di Cygnus IV,» disse una voce nasale da dietro un olotesto fermo da troppo tempo «lo scemo del villaggio ha un valore sacrale: è la voce della verità, il matto del re. Il problema non era nella regia, ma nell’esecuzione»
«Però, è vero che non è stato un successo, ma non abbiamo nemmeno rovinato niente. Uccisi due o tre Hoatiani, il rispetto per la dea non è venuto meno». Diego settò alcuni parametri alla consolle.
«Fare fuori due o tre indigeni è un insuccesso. Gli studi dimostrano che l’idea di un dio vendicativo porta a un’economia di sussistenza, mentre elargire ricompense è più efficace: porta a sviluppo tecnologico e culturale», disse Tekura. Si alzò in piedi e passò attraverso l’olotesto, per dirigersi al pannello di controllo di Diego. Aveva proprio voglia di pontificare.
«Ipocrita», sentenziò Esther. «Li mandiamo a spaccarsi la schiena nei fanghi e ad avvelenarsi i polmoni nelle miniere e poi se ne muore uno col laser apriti cielo!… A proposito, Diego, come mi scendi oggi?»
«Gorgo al centro del laghetto, raggio traente e a seguire sfilata sulle acque»
«Oh, ti piace, sì, quando torno su con la tutina bagnata?»
Tekura arrossì nel vedere la donna che portava entrambe le mani ai seni, e disse sprezzante: «Ti ricordo che oggi devi apparire nel tuo aspetto taumaturgico, non quale ladra notturna di seme»
«Stronzo. L’ho fatto una sola volta, per tua cattiveria»
«No, macché cattiveria, era del tutto coerente col contesto»
«Dannate società patriarcali!», esclamò Esther.
«Scioviniste!», «Fallocratiche!» la canzonarono i colleghi.
«Questo è il BDO di oggi». Heinrich arrivò in plancia, portando dal laboratorio un involto grande come un pugno. «L’archetipo è quello del Graal. Va messo sull’altare vicino a un punto di raccolta. Quando nei magazzini viene rilevato un congruo aumento delle materie prime, i naniti curativi si moltiplicano fino a riempire la coppa»
«Peccato che non curi la coglioneria, altrimenti ne potrebbe prendere Tekura»
«Guarda cara che la Cosmic fa presto a reclutare un’altra attriciucola»
«Attriciucola?» obbiettò indignata Esther. Il portellone della nave, invisibile dall’esterno, cominciò ad aprirsi. Esther, guardò eccitata: qualche decina di metri più sotto una folla festante si preparava a celebrare il solstizio. «Attriciucola! Tsk! Voi siete degli sfigati come loro. Io sono una dea!»

sabato 11 giugno 2016

Stellaris: la grande space opera non è più solo sui libri

Questa è la prima volta che, su questo blog, scrivo di un videogioco, e non credo ci saranno molte altre occasioni. Se lo faccio è perché Stellaris, strategico in tempo reale sviluppato della svedese Paradox Interactive, mi ha incuriosito sin da quando, un mese fa, ho visto questo trailer.


Stellaris, il cui nome è probabilmente un omaggio al Solaris di Lem, è un videogame Grand strategy del tipo 4X. Chi non fosse avvezzo alla terminologia videoludica si rassicuri, perché ho dovuto io per primo controllare di cosa si tratta: al genere "grand strategy" appartengono i giochi di simulazione bellica in cui bisogna badare anche agli aspetti economici e politici della propria potenza militare. Mentre 4X sta per "Explore, expand, exploit, exterminate".
Può darsi che per qualcuno io risulti più chiaro paragonando Stellaris al gioco da tavolo Eclipse, anch'esso di design nordico, in cui il giocatore è l'impersonale supervisore di un potere interstellare che deve gestire i propri pianeti, recuperare risorse, sviluppare tecnologie, confrontarsi coi propri avversari attraverso gli strumenti della diplomazia o della guerra.
Ecco, rispetto a Eclipse, che per essere un boardgame strategico-gestionale è di difficoltà medio-alta, Stellaris è molto più vario e complesso. Chi ha giocato a qualche Civilization, conosce probabilmente la soddisfazione e il contemporaneo inappagato senso di attesa risultante dal conseguimento di una vittoria tecnologica: l'umanità si libera delle catene che la tenevano relegata al terzo pianeta del sistema solare, nasce allo spazio, costruisce una nave generazionale e poi...
Niente, poi su Civilization hai vinto. Stellaris invece parte da qui, da una civiltà neanche tanto più progredita della nostra che ha appena scoperto il modo di viaggiare abbastanza agevolmente per le immense distese siderali. Come e in quanto tempo colonizzerà altri sistemi stellari e su quali pianeti si insedierà? A quali scoperte, teorie e tecnologie ambirà? Come reagirà di fronte ad altre civiltà galattiche; e come invece tratterà altre razze senzienti meno evolute che incontrerà nelle sue esplorazioni? Queste domande troveranno risposta nelle scelte del giocatore oltre che nei fondamenti etico-ideologici della propria civiltà di partenza.
Dopo aver scelto se essere degli umani, altri mammiferi, rettili o volatili più o meno antropomorfi o un qualche tipo di artropodo, mollusco o fungo, al giocatore sarà proposto il seguente schema:



Laddove agli opposti e a due diversi livelli (moderato e fondamentalista) si trovano le coppie minime guerrafondaio/pacifista, spiritualista/materialista, collettivista/individualista, xenofilo/xenofobo. E a seconda della scelta, sarà poi possibile scegliere forme di governo che vanno dalla democrazia diretta al dispotismo illuminato, dall'oligarchia scientifica alla burocrazia pacifista. Ogni razza avrà poi dei tratti fisici e psicologici che, come d'altronde l'etica e la forma di governo, daranno dei bonus o dei malus alle più diverse dinamiche del gioco. Ma ecco, ad esempio, un sovrano illuminato della Confederazione Monarchica dei Corgi.



Che siate pacifici esploratori o sterminatori senza scrupoli di ogni forma di vita che intralci il vostro progetto egemonico, su Stellaris dovrete occuparvi comunque un po' di tutto: esplorazione, gestione dei pianeti produttori di risorse, ricerca scientifica, costruzione e potenziamento della vostra flotta, fondazione di colonie, delega all'intelligenza artifciale di aspetti che diventeranno mano a mano secondari.
Se Stellaris fosse soltanto questo sarebbe già tanto, ma probabilmente non mi avrebbe stregato come ha fatto e non avrei scritto questa recensione. Il gioco invece è immersivo e coinvolgente, ha ambizioni autenticamente fantascientifiche e un anelito epico. Presenta parti narrate piuttosto lunghe per un videogioco (500-1000 caratteri) che introducono le scelte che il giocatore deve compiere. E, come gran parte della buona fantascienza, è citazionistico, direttamente o indirettamente. Le creature e le situazioni che ho incontrato mi hanno ricordato romanzi e racconti di Hoyle (La nuvola nera), di Sturgeon (Cristalli sognanti), Dick (il racconto 'I pifferai') e tanti altri. Il fatto che si debbano fare delle scelte oculate quasi impone la lettura delle parti narrative, che a loro volta non deludono.
La musica, splendidamente adatta, è non meno citazionistica: da Blade Runner (e in generale Vangelis) a Star Wars, dal Songs of Distant Earth di Mike Oldfield all'intramontabile "elettronica misto classica" tipica del cinema di fantascienza.
Insomma, Stellaris è un ottimo gioco; ed è un gioco di fantascienza in alcuni sensi che raramente riguardano l'ambito videoludico: l'epica e l'estrapolazione.
È visivamente notevole, ma su ciò che in genere si chiama "grafica" prevalgono l'illustrazione e il disegno. Ha una giocabilità piuttosto lunga (dopo una partita della durata di molte ore non avevo ancora visto tutte le meccaniche del gioco) e, specie dopo la prima patch, chiamata "Clarke", pochi bug e pochi problemi di bilanciamento.
Tra i difetti citerei la lungaggine delle fasi avanzate del gioco, le scarse alternative alla vittoria militare e la mancanza di un punteggio di fine partita.
Ciò non toglie che chi ama la fantascienza secondo me dovrebbe provare e apprezzare Stellaris, per vedere quanto di narrativa (largamente intesa) ci può essere anche in un medium come il videogioco, ma anche per fondare, far fiorire e prosperare l'impero o la confederazione galattica di cui avrebbe sempre voluto leggere. O scrivere.