Ho deciso di scrivere questo pezzo, ritornando così a un blog che avevo chiuso da anni, perché di nuovo l’esigenza di dire è diventata impellente, perché la stampa insiste nel promuovere, nei riguardi del popolo afghano, principalmente sentimenti di solidarietà e compassione, relegandoli al ruolo di vittime all’interno di un copione che donne e uomini afghani farebbero volentieri a meno di interpretare. Perché ieri, in un tardo pomeriggio d’agosto, il sole illuminava i colori - nero rosso e verde - della bandiera afghana, trasformando piazza della Libertà in uno schizzo impressionista dove vividi e vibranti erano non solo le sfumature cromatiche ma anche le idee e le rivendicazioni che i cittadini e le cittadine afghane residenti sul nostro territorio hanno voluto portare all’attenzione della città e, possibilmente, ad un pubblico ancora più ampio.
Stamattina, sul quotidiano locale, la notizia della manifestazione di ieri era una didascalia a una minuscola foto, dentro un altro articolo. Il pezzo principale – riferendosi a una toccante foto di Fausto Biloslavo – parlava dell’importanza delle immagini iconiche nel suscitare empatia e comprensione della sofferenza altrui. Capire, empatizzare, sentirsi persone buone, eventualmente appendere un drappo del colore appropriato alla propria finestra. Che sollievo! A sentir taluni, basta così poco per cancellare il sentimento soggettivo e la responsabilità oggettiva di essere compartecipi di quanto ora sta accadendo in Afghanistan e di quanto accade in ogni conflitto le cui radici affondano nel più o meno recente passato (e non-passato) coloniale dell’Occidente.
Il popolo afgano, invece, non ha bisogno solo, o forse non tanto, di solidarietà e compassione, ma di essere ascoltato, supportato e rappresentato nelle sue istanze politiche, che ci interpellano non come una nota di colore ma quali cittadini italiani ed europei, elettori, opinione pubblica, consumatori, la cui voce ha il privilegio di dover essere almeno in parte ascoltata, se coerente e organizzata.
Chi di fronte a un’immagine iconica si limita a sorprendersi, commuoversi, indignarsi, "non ha raggiunto la maturità morale e psicologica", spiega Susan Sontag in un testo fondativo dal titolo Davanti al dolore degli altri . La sorpresa commozione manifesta l’ignoranza della propria parziale responsabilità, l’indignazione allude al pensiero che non si possa fare nulla.
La sorpresa, la commozione, l’indignazione, devono essere la via, e non l’ostacolo, ad un’azione sociale e politica. Un’azione che parte dall’ascolto. Cosa chiedono dunque i ragazzi e le ragazze, le donne e gli uomini afghani che ieri hanno dato vita a un composto corteo da piazza Unità a piazza Libertà?
Cosa dicono? Cosa c’è scritto sui loro cartelli?
Auspicano la pace, i diritti umani, la sicurezza per le loro famiglie, che il loro paese, libero dai talebani, possa vivere una stagione di progresso culturale, economico e sociale. Questa è più una preghiera, una speranza. Inshallah.
Ma chiedono – lo domandano a noi – anche corridoi umanitari: chiedono cioè che i cittadini afghani, in particolare le minoranze etniche, politiche, linguistiche, religiose, di genere, non siano obbligate ad affrontare la fatica, l’umiliazione, le spese, il rischio di un viaggio che attraverso il confine con l’Iran, passando per la Turchia, la Grecia, i Balcani, lo sfruttamento lavorativo o peggio, i picchiatori paramilitari croati, i respingimenti alle frontiere, li porti ad approdare qui come clandestini il cui “reato” debba essere sanato dalla richiesta e poi dall’ottenimento dell’asilo politico.
Chiedono che il governo italiano e i governi europei non cedano alla realpolitik di riconoscere l’autoproclamato emirato talebano e non interloquiscano con i suoi rappresentanti. Chiedono a noi di essere differenti da Russia e Cina e – aggiungo io – di considerare attentamente quale sia il male minore.
Sono proposte concrete. Sono formulate in lingua pashto, dari, italiano, inglese, tedesco, ciascuno secondo ciò che può dire e per quanto può dirlo. Ad ascoltarle, lì, eravamo sì e no in venti. Ma in tante altre città d’Italia e d’Europa altre piazze nere rosse verdi hanno detto la loro, e chissà che in questa babele di lingue si possa creare quella connessione, quel miracoloso giungere ad un obiettivo che da sempre vanno cercando la ricercata vaghezza dei poeti e la lucida precisione dei filosofi.
In queste settimane, lavorando come insegnante di italiano a stranieri, ho raccolto alcune lacrime. Ieri sono andato alla manifestazione per raccogliere alcune idee e forse sono riuscito a raccogliere persino le mie.
Ringrazio il fotografo Hafiz Kavosh Turgan per avermi permesso di utilizzare le sue foto.
Stamattina, sul quotidiano locale, la notizia della manifestazione di ieri era una didascalia a una minuscola foto, dentro un altro articolo. Il pezzo principale – riferendosi a una toccante foto di Fausto Biloslavo – parlava dell’importanza delle immagini iconiche nel suscitare empatia e comprensione della sofferenza altrui. Capire, empatizzare, sentirsi persone buone, eventualmente appendere un drappo del colore appropriato alla propria finestra. Che sollievo! A sentir taluni, basta così poco per cancellare il sentimento soggettivo e la responsabilità oggettiva di essere compartecipi di quanto ora sta accadendo in Afghanistan e di quanto accade in ogni conflitto le cui radici affondano nel più o meno recente passato (e non-passato) coloniale dell’Occidente.
Il popolo afgano, invece, non ha bisogno solo, o forse non tanto, di solidarietà e compassione, ma di essere ascoltato, supportato e rappresentato nelle sue istanze politiche, che ci interpellano non come una nota di colore ma quali cittadini italiani ed europei, elettori, opinione pubblica, consumatori, la cui voce ha il privilegio di dover essere almeno in parte ascoltata, se coerente e organizzata.
Chi di fronte a un’immagine iconica si limita a sorprendersi, commuoversi, indignarsi, "non ha raggiunto la maturità morale e psicologica", spiega Susan Sontag in un testo fondativo dal titolo Davanti al dolore degli altri . La sorpresa commozione manifesta l’ignoranza della propria parziale responsabilità, l’indignazione allude al pensiero che non si possa fare nulla.
La sorpresa, la commozione, l’indignazione, devono essere la via, e non l’ostacolo, ad un’azione sociale e politica. Un’azione che parte dall’ascolto. Cosa chiedono dunque i ragazzi e le ragazze, le donne e gli uomini afghani che ieri hanno dato vita a un composto corteo da piazza Unità a piazza Libertà?
Cosa dicono? Cosa c’è scritto sui loro cartelli?
Auspicano la pace, i diritti umani, la sicurezza per le loro famiglie, che il loro paese, libero dai talebani, possa vivere una stagione di progresso culturale, economico e sociale. Questa è più una preghiera, una speranza. Inshallah.
Ma chiedono – lo domandano a noi – anche corridoi umanitari: chiedono cioè che i cittadini afghani, in particolare le minoranze etniche, politiche, linguistiche, religiose, di genere, non siano obbligate ad affrontare la fatica, l’umiliazione, le spese, il rischio di un viaggio che attraverso il confine con l’Iran, passando per la Turchia, la Grecia, i Balcani, lo sfruttamento lavorativo o peggio, i picchiatori paramilitari croati, i respingimenti alle frontiere, li porti ad approdare qui come clandestini il cui “reato” debba essere sanato dalla richiesta e poi dall’ottenimento dell’asilo politico.
Chiedono che il governo italiano e i governi europei non cedano alla realpolitik di riconoscere l’autoproclamato emirato talebano e non interloquiscano con i suoi rappresentanti. Chiedono a noi di essere differenti da Russia e Cina e – aggiungo io – di considerare attentamente quale sia il male minore.
Sono proposte concrete. Sono formulate in lingua pashto, dari, italiano, inglese, tedesco, ciascuno secondo ciò che può dire e per quanto può dirlo. Ad ascoltarle, lì, eravamo sì e no in venti. Ma in tante altre città d’Italia e d’Europa altre piazze nere rosse verdi hanno detto la loro, e chissà che in questa babele di lingue si possa creare quella connessione, quel miracoloso giungere ad un obiettivo che da sempre vanno cercando la ricercata vaghezza dei poeti e la lucida precisione dei filosofi.
In queste settimane, lavorando come insegnante di italiano a stranieri, ho raccolto alcune lacrime. Ieri sono andato alla manifestazione per raccogliere alcune idee e forse sono riuscito a raccogliere persino le mie.
Ringrazio il fotografo Hafiz Kavosh Turgan per avermi permesso di utilizzare le sue foto.