venerdì 30 ottobre 2015

Uscir fuori di se e trovar se stessi

Quali spazi per la fantascienza nel mondo della scuola? Perché far leggere science-fiction a bambini e ragazzi? Fantascienza durante le ore di materie letterarie o nell'ambito delle discipline scientifiche?
Per rispondere a queste domande, sono stato invitato a parlare, martedì scorso, a un seminario interdisciplinare rivolto a docenti delle scuole di lingua italiana in Slovenia e Croazia.
Nelle sale di palazzo Manzioli, dimora in stile veneziano recentemente rimodernata e sede della comunità italiana di Isola d'Istria, più di cinquanta insegnanti hanno trascorso una giornata all'insegna dello straniamento. Straniamento brechtiano con Daniela Dellavalle, art-theatre counselor, che ha proposto gli esercizi del Teatro dell'Oppresso per mettersi nei panni dell'altro, svelare i pregiudizi che abbiamo sul prossimo e formulare modi di superarli. Straniamento cognitivo - mi si permetta la citazione suviniana - attraverso la fantascienza, di cui ho fornito un breve quadro storico e alcuni elementi di teoria del genere letterario, e di cui si è poi fatta esperienza diretta.

 I docenti in pausa caffè davanti a palazzo Manzioli

La fantascienza, forse più di ogni altro tipo di letteratura, va esaminata e presentata in un'ottica interdisciplinare. Per poter consentire alle cosiddette "due culture", scientifica e umanistica, di compenetrarsi, vanno innanzitutto permeabilizzate le barriere che storicamente caratterizzano queste visioni del mondo percepite ancora troppo spesso come alternative.
L'interdisciplinarietà può essere, ad un primo livello, un rapporto contenitore/contenuto, una sorta di relazione metonimica, ad esempio, tra un testo e le tematiche o le forme che presenta. Un romanzo che dedichi un discreto spazio alla descrizione della vegetazione del luogo in cui è ambientato richiede da parte dello scrittore una minima conoscenza di botanica; ma anche il lettore potrà trarre maggior soddisfazione dall'opera se saprà qualcosa di piante o sarà disposto ad informarsi. Viceversa, in un testo scientifico (specialistico, ma ancor più divulgativo), l'autore, al fine di veicolare meglio il contenuto, potrà fare uso di strumenti letterari: figure retoriche, topoi, strutture e forme della narrativa.
Mi pare che in questi due primi casi le barriere vengano meno solo in parte. Certo la prospettiva dell'inclusione è già un passo avanti, ma una vera integrazione, una messa a sistema delle conoscenze, richiede - per tornare alla similitudine retorica - non una metonimia ma una metafora: un trasporto (che è poi l'etimologia di 'metafora') totale di una disciplina nel campo di studi dell'altra.
Ed ecco che così, secondo alcune delle prospettive critiche e teoriche più recenti, la letteratura va presa in esame percorrendo a ritroso l'evoluzione che l'ha condotta ad essere una delle attività "dello spirito" per eccellenza. Senza soluzione di continuità si "regredisce" all'antropologia, all'etologia, al linguaggio come elemento a base biologica responsabile dell'ominazione, ripartendo poi dal suo sviluppo in tecniche e tecnologie (narrazione, letteratura, arte) come specializzazione dell'homo sapiens, specializzazione che può essere, e che auspico sia nei fatti, un vantaggio in termini di sopravvivenza. La struttura sociale di una colonia di formiche è determinata da segnali chimici. Un branco di lupi rinsalda i legami attraverso la caccia e la condivisione del cibo. Allo stesso modo la letteratura (più genericamente: una narrazione) può costituire l'umano consorzio, farlo sopravvivere all'ambiente e - nell'era geologica dell'antropocene - a se stesso, ricordandogli al contempo che l'uomo non è né formica né lupo.
Se assottigliare le barriere della letteratura significa ricondurre un'attività spirituale al suo "fondo animale", operare allo stesso modo nei confronti della scienza comporta la decostruzione di concetti base come 'teoria scientifica', 'realtà empirica' ecc. Se non bastassero allo scopo il falsificazionismo popperiano, la teoria della rivoluzione del paradigma scientifico di Kuhn (che inserisce le conoscenze scientifiche, al pari di quelle umanistiche, nel divenire storico) e altri elementi anche contenutistici e sperimentali della scienza contemporanea, si potrebbe guardare alla scienza come un'attività simbolica fortemente ritualizzata e al testo scientifico (opera di divulgazione o articolo specialistico) come ad un genere letterario che non differisce da un sonetto, un'ode o un romanzo giallo se non per le regole - anche queste in evoluzione storica - a cui il testo deve sottostare.
Dopo questo sguardo alla propria disciplina da una prospettiva straniante, sguardo forse un po' provocatorio ma certamente fondato, ho chiesto ai docenti di mettersi a coppie miste (uno umanistico, l'altro scientifico) e di presentarsi vicendevolmente. Ciascuno poi si è "straniato": si è presentato a tutti come se fosse l'altro, cercando di descrivere empaticamente come proprie le motivazioni del collega, le passioni e gli interessi che l'hanno condotto a seguire il suo percorso di studi.

Ecco, a questo punto ho potuto cominciare a parlare di fantascienza. Il fandom, gli studiosi e i professionisti del settore a volte danno per scontato che il canale di comunicazione interdisciplinare sia ricettivo e sgombro da pregiudizi o barriere difensive. Forse l'ho dato per scontato anch'io quando, in occasione di un precedente intervento, ho parlato di sf e mi sono ritrovato davanti a un uditorio perplesso e un po' riluttante. Stavolta, invece, sono riuscito a creare le condizioni per un seminario e un laboratorio efficaci.
Ho fatto qualche domanda preliminare. Su circa cinquanta docenti (che ho incontrato in due turni da tre ore) una decina avevano visto un film di fantascienza nell'ultimo anno; tre o quattro, nello stesso periodo di tempo, avevano letto un libro che si sentivano di ascrivere a questo genere letterario. Ancora: circa dieci avevano letto almeno tre romanzi di fantascienza nella loro vita. Tra gli insegnanti di lettere, tre, mi pare, avevano utilizzato qualche volta la sezione dei libri di testo (presente in genere nei volumi per la V elementare e per la III media) dedicata alla letteratura fantascientifica.
Ho parlato un po' dello sviluppo del genere letterario, citando cose che ogni studioso e molti appassionati sanno, ma in gran parte nuove per l'uditorio: protofantascienza, meraviglioso scientifico, le riviste anni '20 e '30, Hard SF, Space Opera, Social SF, New wave, fantascienza anni '70, Cyberpunk, fantascienza fuori dall'occidente, fantascienze ibridate con altri generi ecc. Poi ho detto qualche parola sulla fantascienza italiana, con un breve approfondimento a quello che è il mio campo di studi: la fs in autori del mainstream letterario.
Infine sono passato a descrivere alcuni tratti teorici e formali della fantascienza, che sono poi i punti più significativi per introdurre gli aspetti didattici. La fantascienza come estrapolazione di un elemento del presente e le conseguenti modifiche di uno scenario futuro, in un ottica di sistema complesso. Come stimolo alla curiosità per la scienza; come serbatoio macrotestuale di idee e di lessico in continua evoluzione. La fantascienza come letteratura dello straniamento cognitivo, che mette al centro la differenza tra il mondo empico e quello narrativo (il novum) e consente al lettore di valutarli da un punto di vista esterno a entrambi.
Se queste sono le premesse, la fantascienza, a scuola, può diventare strumento di educazione civica, ambientale e all'uso della tecnologia (ambiti che richiedono conoscenze integrate e capacità di proiettare nel futuro gli effetti dei propri comportamenti); di interculturalità e accettazione dell'altro e delle sue diversità; di applicazione al contempo di nozioni scientifiche e letterarie nella stesura di testi.

E poi siamo venuti al dunque. Quanto spesso un insegnante di lettere chiede agli studenti di scrivere un testo di fantasia e d'invenzione? Abbastanza spesso. E quante volte ha l'opportunità di farlo egli stesso, ricordandosi quali sono le difficoltà e le soddisfazioni di questa consegna? Per molti, nessuna.
Dati l'ambientazione scolastica e cinque diversi spunti, ho quindi chiesto ai docenti di dividersi in piccoli gruppi e di elaborare dei testi fantascientifici, non necessariamente narrativi. I minuti a disposizione non erano molti, quindici-venti, ma l'impegno profuso dagli insegnanti è stato encomiabile e la varietà dei testi al di sopra delle aspettative: un testo regolativo sull'uso delle strutture scolastiche (refettorio, servizi igienici e palestra) in assenza di gravità; un invito ad un corso di aggiornamento pensato per insegnanti che devono imparare a gestire i poteri psichici comparsi in un'ingente fetta della popolazione infantile; una circolare del dirigente scolastico che, in base a recenti scoperte genetico-pedagogiche, impone di suddividere le classi in base al colore degli occhi; un testo normativo con cui la scuola, sponsorizzata da privati e obbligata a far loro pubblicità, stabilisce le sanzioni per chi non rispetti le politiche commerciali della struttura; un testo narrativo - necessariamente molto breve - sulla scuola al tempo della simbiosi cerebrale con la rete e i social network (che riporto alla fine del post perché mi è sembrato tra i più significativi). E diversi altri, di cui solo uno o due non del tutto adeguati.

Infine ho consegnato alcuni brevissimi racconti da leggere e da utilizzare come spunto per progettare un'attività didattica interdisciplinare. I docenti hanno avuto poco tempo per condividere le loro idee, ma anche questa attività mi sembra sia stata ben accolta.

Una giornata intensa e arricchente. Per me sicuramente, confido anche per i docenti. Un altro piccolo contributo a favore della causa fantascientifica per la quale, non senza autoironia, mi pregio di combattere. Per dirla con Raymond Queneau: «La Science-fiction vaincra»

♦♦♦

GEORGE
  
Ore 8:00 di un mercoledì mattina.

«Tarkoski, parlami della storia della centrale idroelettrica di P.»

La domanda del prof. Severio Weah arriva precisa e pungente. La settimana scorsa siamo stati al campo scuola di M. dove abbiamo seguito il solito programma che tradizionalmente svolgono le scolaresche.
Ovviamente non ho nessun timore di rispondere, dato che George è già attivo da un'ora.
Google, centrale di quel figlio di P., wikipedia...

«La centrale è stata fondata nel 1902, per iniziativa di Napoleone IV che voleva fornire energia al paese circostante dalla Confederazione del...»

BLACKOUT

Ecco, non ci voleva, la solita storia quando arriva il tecnico informatico che attiva il firewall.
Da un po' di tempo le scuole hanno scoperto le potenzialità di George e fanno di tutto per bloccarlo. Ora non posso più accedere a internet e devo attingere solo dai miei ricordi.

«... la Confederazione del blackout», mi esce di bocca, ma mentre lo dico capisco di essermi reso ridicolo.

«Tarkoski - mi incalza il prof. Severio - cosa ti succede? Va tutto bene?»

Non so più cosa dire, la mia salivazione è azzerata. George non può più connettersi a Internet, però può utilizzare il social network coi compagni. Mi viene l'idea. Subito faccio partire le offerte.

Mario, 5€ se mi dai la risposta - Ne voglio 20.
Geremy 10€ se mi aiuti - Scordatelo, ne voglio almeno 30.

Intanto i compagni comunicano tra loro, sempre grazie a George si crea un cartello che fissa il prezzo a 1000€ . Non posso rimanere senza parole e devo accettare. 1000 € , faccio il bonifico e la risposta arriva subito.
Soddisfatto e fiero di me stesso, rispondo bandalzoso al prof. Weah:
«Sì».

venerdì 23 ottobre 2015

Libri che colano, libri che volano e altri strani libri

Retrospettiva Stranimondi 2015


Le biblioteche domestiche, tanto più in un periodo come questo in cui si stampano così poche versioni cartacee, dovrebbero essere sempre ordinate: i libri non devono stare troppo stretti o troppo larghi; non devono esserci libri sopra altri libri, o libri dietro o dentro altri libri. Questo perché, ogni tanto, a distanza di anni, si riprende in mano un volume, cogliendolo dalla libreria sovrappensiero come quando si strappa un filo d'erba o una spiga. E allora, in quel momento di grazia, la mano, mossa da una volontà così labile, non deve trovare ostacoli che le impediscano di afferrare il reperto e infondergli linfa per qualche istante. E ogni libro prende vita a modo suo: c'è quello che ti lascia cadere uno scontrino sbiadito; quello che proietta uno di quegli ologrammi che andavano di moda dieci anni fa; quello comprato in bancarella che - non sai se per un mal impresso ex libris o per le pagine segnate da frettolose refezioni di gente ormai deceduta - pare emettere d'un tratto un acre odore. C'è il manuale che studiasti per un esame e il testo che leggesti in quarta elementare. La raccolta che contiene il racconto che vale la raccolta; il romanzo di cui ricordi una singola potente immagine sulla quale però in pochi istanti si impone quella in copertina.

Ma parliamo di questi libri. Cosa mi dicono, dopo tanti anni, questi volumi che mi sono portato a casa dalla prima edizione di Stranimondi?
Mi ricordano che già nel lontano 2015 - facenti fede le date del 10 e 11 ottobre - la fantascienza italiana era vitale e interessante, o meglio,  aveva una nuova occasione per riconoscersi tale, per sapere di valere. Editori, scrittori, studiosi e lettori si erano dati convegno per attestare la loro passione, il loro impegno, la loro fiducia nei confronti di un genere così vasto e bello e pure, allora, così misconosciuto, serrato com'era in una morsa tra la nomea accademica di 'popolare' e la nomea popolare di 'settario'; tra la ritrosia da parte dei grandi editori a chiamare le cose col loro nome e l'ostinazione da parte di alcuni esponenti del fandom a non tollerare corpi estranei nelle loro letture. Molti di questi irriducibili non si sono mai ricreduti: ne ho avuto recente conferma da un infermiere di 'Dimora Stellare', aggredito a colpi di deambulatore brandito al grido "non è fantassienza! non è fantassienza!". Per il resto, sappiamo tutti com'è andata: la fiducia di quei - quanti erano? - seicento partecipanti era ben riposta, il loro ottimismo motivato. Se a riprova di ciò non bastassero i cinque riconoscimenti - attesi e meritatissimi - vinti dalla narrativa italiana agli ultimi premi Hugo e Nebula, si potrebbero citare i diversi grandi nomi della SF internazionale che - sulle orme dell'indimenticato precursore Bruno Argento - hanno scelto di vivere in Italia. E si potrebbe citare Pseudocronia di Margaretti, che, perso due anni or sono il Nebula a causa della spiacevole vicenda dei 'Good Old Gentlemen', è stato ora selezionato per una delle monumentali trasposizioni di Virtual Life Mask. Anche sul piano delle grandi case editrici si è mosso qualcosa: Mondrifà, ad esempio, superati i problemi con l'antitrust, forte delle sua duplice esperienza nel campo, sta puntando molto su fantastico e fantascienza, riguadagnando terreno su quei piccoli editori che hanno eroicamente traghettato il mercato della letteratura di FS agli attuali felici lidi. Certo, sarebbe ingenuo attribuire al successo di Stranimondi quella che, se non fu un'inversione di tendenza, fu una prodigiosa accelerata su un valido percorso già intrapreso. Perché a tale fenomeno contribuirono anche altri fattori, esterni non solo alla fantascienza, ma allo stesso mondo letterario. Ma sarebbe altrettanto riduttivo non leggere nel movimento della fantascienza italiana dalla periferia al centro un riflesso di quella valorizzazione delle periferie (al plurale: geografiche, cronologiche, di genere, mediali) visibile in maniera organica proprio in quella prima edizione del festival. Edizione caratterizzata peraltro da una perfetta organizzazione, da un clima disteso, propositivo, collaborativo; da sorprendenti momenti di agnizione tra persone che si vedevano per la prima volta dopo essersi conosciute sui social network, prima che questi degenerassero nelle loro attuali forme. E se questi sono aspetti, è vero, non del tutto inediti in manifestazioni precedenti né, ovviamente, assenti in incontri successivi, è vero anche che per molti dei partecipanti assunsero il valore e la forza assertiva di un vero e proprio mito fondativo.
Ma ecco che, tra i sei volumi che costituirono il magro bottino di quell'ottobre 2015, afferro d'istinto due libri molto diversi. Rappresentano poli opposti della fantascienza e, in un certo senso, due concezioni diverse di letteratura. Già allora, leggendoli e poi riponendoli sullo scaffale, mi domandavo in che modo avrebbero preso vita nei miei ricordi e mi rispondevo scrivendone delle recensioni, che qui riporto.



Il libro che cola


Mondo9 di Dario Tonani è stato ristampato in agosto sull'Urania Millemondi 72, assieme al suo seguito, Mechardionica. Il corposo volume mondadoriano, magistralmente illustrato da Franco Brambilla, raccoglie per la prima volta le due opere dell'autore milanese, pubblicate rispettivamente nel 2012 e 2013 da Delos.
Mondo 9 - mi riferisco ora solo alla parte del 2012 - è un romanzo che cola, percòla e smòccola qualsiasi tipo di fluido organico o inorganico: sangue, guano, sudore, muco, urina, vomito, qualsiasi tipo di escremento o di poltiglia, olio, pioggia contaminata, acidi, veleni. Non mi stupirei se, tra qualche decennio, sollevando il volume per un angolo del frontespizio, da esso cominciasse a grondare del liquame bruno. L'opera è un fix-up di quattro racconti, un prologo, un epilogo e alcuni intermezzi, uno dei quali è una short story in sé. Le vicende coprono un arco di circa trent'anni e seguono le vite - ma nessuna delle due si può propriamente chiamare tale - del Guardiasabbia Garrasco e della nave Robredo. Ma se, dal punto di vista dei personaggi umani, Mondo9 è un romanzo corale e frammentato - perché la componente antropica cambia di racconto in racconto - esso trova la sua unità nella componente macchinina: la nave Robredo e la sua lotta per un'ambigua forma di sopravvivenza sono al centro di tutti gli episodi. Lotta contro l'ambiente inospitale - ma forse meno alieno per essa che per le scimmie nude -; lotta contro gli esseri umani, che la vorrebbero imbrigliare, ammansire e infine distruggere, ma di cui pure ha bisogno.
C'è da giurarci che su Tonani non fa presa la trappola ontologica della nave di Teseo, della quale si cambiano i pezzi uno dopo l'altro e ci si domanda se sia ancora la stessa nave. Perché su Mondo9 tutto si ricicla e si ricambia: tutto è biologico, fisiologico, “ecologico”, come in ogni planetary romance che si rispetti: nel senso che tutto il vivente è tanto più collegato quanto più l'ambiente rende arduo preservare la continuità della vita. Qualunque materiale che abbia ancora un'ombra di ordine biologico è funzionale a combattere l'entropia della sabbia indistinta. Un po' come accade in Dune: e  l'immagine del cardo mangiaruggine che, sbucando dalla sabbia, fagocita la Robredo è probabilmente debitrice dello Shai Hulud che attacca la mietitrice di spezia.

Il romanzo inizia già con una situazione di sudditanza dell'uomo alla macchina. Sudditanza che si configura inizialmente come economica: è meglio sacrificare vite umane che perdere i costosissimi meccanismi che consentono alle navi di muoversi sulle dune in modo relativamente stabile. Come si è giunti a questa situazione? È difficile non adottare uno sguardo archeologico, quasi di archeologia industriale: Mondo9 forse è stato lasciato a imbarbarirsi da una civiltà interplanetaria civile e evoluta; traspare dal libro un passato neanche troppo lontano in cui le navi erano qualcosa di controllabile dall'uomo; in cui la competenza tecnica e teorica degli esseri umani riusciva a gestire quella che sembra essere un'intelligenza artificiale con programmi definiti e senza sorprese. Ma sin dall'inizio del libro il governo delle navi è qualcosa di misterioso, che vede coinvolti dei tecnici, dei fabbri, ma anche degli avvelenatori, a conferma che la tecnologia comincia a prevalere quando il suo  funzionamento è frammentato, nessuno lo conosce complessivamente ed e quindi descritto in termini di magia e di superstizione. Passata la fase di pieno controllo umano, la tecnologia comincia a evolversi autonomamente. E nell'evolversi a grande velocità - dopotutto è un'intelligenza artificiale e non procede a tentoni, a caso - la specie-nave inizia ad interagire con l'ambiente, a copiare le forme che trova in esso (è il caso degli uccelli perennemente appollaiati su ringhiere e ciminiere), ad utilizzare gli umani come simbionti, in una coevoluzione impari (senza apparenti vantaggi per l'uomo) grazie alla quale la nave sfrutta proprio quelle proprietà che costituiscono l'unicum dell'uomo: il linguaggio e la consapevolezza della morte. In quasi tutto il libro, il racconto in terza persona si alterna ad una forma diaristica, ma anche le riflessioni, gli improperi e le suppliche di questi improvvisati scrittori (che scrivono per sapere di essere vivi e di essere umani) vengono in qualche modo assimilate dalle macchine che le riciclano come materiale verbale per imparare qualcosa del mondo esterno a loro prelcuso, oppure per vomitarle ripetendole così come le hanno lette o udite. E anche la credenza (o la consapevolezza) di un qualcosa dell'umano che sopravvive alla morte fisica viene cooptata in senso fisiologico dalle grandi navi, per cui la popolazione umana si divide in Esterni (vivi e doloranti, un'umanità sofferente) ed Interni (morti, forse un po' meno  sofferenti, ma vero “software” delle macchine: un'umanità infera). Questa pare essere la rivelazione,  a piccole dosi, del libro: alla fine l'uomo, per sopravvivere, ha dovuto farsi macchina nella sua forma vivente e morta (o immortale) e quello che pareva essere l'instaurarsi di uno sfruttamento della  macchina sull'uomo è, come sempre, il giogo dell'uomo sull'uomo, con le macchine come tramite.  Questo riduzionismo dell'uomo alla sua funzione biologica è presente di continuo in alcune immagini di morte e di assimilazione, ma il senso complessivo dell'accostamento dei quattro racconti - dei quali l'ultimo è in qualche modo risolutivo - è qualcosa che il libro secerne nella sua interezza. Ancora una considerazione sul riduzionismo al biologico e sulla sua simbologia: dicevo che ci sono tutti i fluidi. In realtà ne manca uno, forse quello che nel bene o nel male rappresenterebbe la trasmissione della vita, la prospettiva di un futuro dell'uomo come specie. Non ci sono nascite di bambini, non ci sono famiglie se non fratello e sorella, non ci sono storie d'amore o accenni alla sessualità. Difficile stabilire se questa sia una condizione generalizzata su Mondo9 o il particolare focus di Tonani sulla sua creatura. A questa e altre domande spero potrò rispondere dopo aver letto le opere successive.

Mondo9 è un gran bel romanzo, con ottime idee in termini di immaginario, di contenuti e di commistione di generi. Lo suggerisco a chiunque ami la fantascienza, a meno che non sia ornitofobo (sì, lo ammetto, forse lo sono un po') o facilmente impressionabile. Se dovessi definirlo, direi che è un planetary romance distopico con diversi elementi horror-splatter e qualche accenno fantastico/soprannaturale: ma a che servirebbe definirlo? Lo stile è molto visivo, asciutto, cronachistico. Freddo e - hanno fatto notare molti - privo di empatia. E se è vero che è esattamente questa la prospettiva di Mondo9 (che empatia si può provare per esseri che fungono da serventi prima di essere scissi in software e liquidi?) è anche vero che questo limita le opportunità espressive, la possibilità di modificare il tono e la velocità del racconto. Forse qualche variatio avrebbe giovato al romanzo, in particolare nelle parti diaristiche, che avrebbero potuto essere un forte stacco rispetto al corpo del testo.

(Qui la recensione a 'Mechardionica')


Il libro che vola

 


Dimenticami Trovami Sognami (d'ora in poi DTS) di Andrea Viscusi è un libro leggero, quasi impalpabile. A tirarlo fuori dallo scaffale potrebbe levitare, prendere il volo, dissolversi in pulviscolo e lasciarti in mano una lieve scia stellata, come bava di lumaca. In questo senso, la copertina scelta dall'editore (Zona42) - enigmatica, essenziale, dai colori pastello - rispecchia perfettamente il tono di questo romanzo che certamente è di fantascienza, ma che non sarei capace di ascrivere con certezza a un sottogenere. Fantascienza filosofica alla PKD? Fantascienza umanistica alla Sagan? (E penso ovviamente a Contact, col quale noto alcune convergenze nella trama.) O magari inner space opera? (Ho googlato tra virgolette: qualcuno ha pensato prima di me a questa etichetta. Peccato. Ad ogni modo, intendo quella dimensione estrema dell'utopia che è l'epica del genere umano, la sua statura esistenziale e interiore al cospetto della sua fragilità nel tempo, nello spazio, nel possibile.)

Se non fosse traboccante di riferimenti diretti e indiretti al grande canone fantascientifico internazionale (di più ho trovato solo in Avoledo, con quasi una facciata di descrizione di una collezione di autografi...) DTS potrebbe sembrare la svolta SF di un autore del mainstream letterario. E ciò, beninteso, è cosa buona, cosa molto buona: la preminenza del libro sul genere (dell'esemplare sulla specie) mi pare segno di libertà stilistica, di autonomia autoriale. Il libro è scritto bene, il dettato è pulito, sempre comprensibile e non riserva particolari sorprese. A sorprendere sono i contenuti - eterogenei, disparati, eppure presentati in modo organico - e la struttura, che asseconda i contenuti e in ogni momento dimostra un ottimo lavoro di sintesi. È difficile dire di cosa parla il romanzo senza soffermarsi sulla trama. Le tematiche sono quelle esplicitate dal titolo e dalla copertina: la memoria, il sogno, la sostanza di cui è fatta la realtà. Il concreto ha pochissimo spazio nel romanzo di Viscusi e, a partire dalla seconda metà, DTS procede alternando astrazione concettuale e immersione nelle profondità archetipiche. Inutile dire che lo fa in una prospettiva di sintesi, anche qui riuscitissima.
Anche se, come dicevo, non è quasi mai difficile seguire il filo della narrazione, quello di Viscusi è, per alcuni versi, un romanzo sperimentale. Lo è soprattutto nell'utilizzo di generi letterari o, meglio, di forme di comunicazione diverse (la narrazione standard, il dialogo della grande tradizione filosofica, la trascrizione della registrazione di una seduta psicanalitica, il racconto dettagliato di un sogno) e nell'alternarsi di tutte e tre le persone grammaticali nel ruolo di narratore (in particolare l'uso del tu è di grande impatto).

Una trattazione a parte meriterebbero gli aspetti metanarrativi del testo, così significativi per una descrizione della realtà in cui la narrazione condivisa di un evento (anche solo interna al soggetto) può precedere e causare l'evento che descrive e sopravvivere senza creare paradossi a narrazioni alternative, in forme che, non essendo (più) mimetiche rispetto al mondo empirico, sono appunto letteratura finzionale. Come il romanzo di Viscusi. E quando un romanzo, anche a lettura conclusa, riesce a suggerire un modo di lettura e di fruizione di sé stesso, mettendosi per così dire en abyme, il lettore non può che avvertire un brivido lungo la schiena.

L'unico elemento debole, a mio avviso, è la caratterizzazione dei personaggi. Non so se fosse possibile fare diversamente in un romanzo con questo impianto, ma più che a 'qualcuno', i personaggi principali - insomma, lui e lei - sono simili a 'ciascuno', all'everyman del teatro inglese medievale. Diversamente avviene per i personaggi secondari, in particolare per il professor Novembre, in un  certo senso metapersonaggio: personaggio di un personaggio. Ma ho già detto che la metanarrazione richiederebbe spazi più ampi. 

Dimenticami Trovami Sognami è una piccola rivelazione. Uno di quei libri che forse anticipa il pubblico e che di conseguenza è in grado di creare un suo pubblico. Verrebbe da dire 'retroattivamente'. Complimenti a Viscusi e a Zona42.