lunedì 9 novembre 2015

I ❤ spiegoni (di alcuni film del S+F che bisogna assolutamente vedere)

"Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni" - potrei puntualizzare citando Umberto Eco. Ma preferisco di no. Perché è naturale, per chi tenti di illustrare la varietà e la qualità delle proposte del Trieste Scienceplusfiction Festival, dichiararsi sconfitto in partenza. D'altra parte, dopo aver stabilito ciò, non riuscirei comunque a trattenermi dal fare un elenco tendente all'esaustivo, sciorinando film e cortometraggi dei generi più disparati, i relativi numerosi premi (Méliès d'or, Méliès d'argent, premio Asteroide...) le mostre (Franco Brambilla mondonoviano, retrogaming...), gli incontri di futurologia (con scienziati, scrittori, disegnatori...), le feste notturne, le attività per bambini, le file spontaneamente bustrofediche e così ordinate da porre simbolico suggello al respiro internazionale della kermesse

 Il manifesto di quest'anno, di Mario Alberti


Dopo un'esperienza di partecipazione pluriennale (in qualche caso anche nello staff), ho capito di amare follemente i cortometraggi, forse perché, come i racconti brevi in letteratura, colgono uno degli aspetti della fantascienza e in generale del fantastico che preferisco: quello di avere "l'idea" come eroe, come protagonista. Ma certamente anche perché io sono uno spettatore capriccioso che si stufa facilmente e vuole sempre vedere contenuti e stili nuovi in un susseguirsi a perdifiato. O forse perché dinanzi a certe pellicole di centodieci minuti vorrei prendere il regista o il produttore per il bavero e gridargli, coi lucciconi agli occhi, "potevi fare un corto perfetto! perché, perché hai voluto fare un film inutile?!".

Di quasi una trentina di corti che ho potuto vedere, almeno una decina erano veramente memorabili. E oltre a The Kármán Line (vincitore del Méliès d'argent nonché premio del pubblico, poeticissimamente allegorico), segnalo The Shaman (un science-fantasy che unisce tecnologie belliche futuristiche e trance sciamanica musicalmente indotta), The Nostalgist (che mi ha fatto pensare a uno scrittore Premio Urania che apprezzo molto e che agghinda con abiti secenteschi un futuro altrimenti indecente e intollerabile) e Ghost Train (in stile Bradbury non fantascientifico, con bambini inquietanti e inquietati in contesto "scary luna park").

 The Karman Line, cortometraggio premiato dal pubblico



La passione per i corti forse mi ha distolto un po' dai lungometraggi, ma non tanto da impedirmi di vederne una dozzina. E a mio avviso (ma ho scoperto di non essere il solo a pensarla così) le sorprese di quest'anno sono documentaristiche. Per vero, ma soprattutto per finta.

Come documentario "vero" (acconsentiamo per un momento che una qualsiasi narrazione possa esser tale) ho apprezzato Dark Star - L'universo di HR Giger. Vista la levatura del protagonista e la natura delle di lui opere, non credo che la regista abbia dovuto giocare le sue carte migliori per rendere questo documentario affascinante e disturbante. Il disegnatore svizzero, famoso per gli effetti speciali di Alien e scomparso poco prima di veder concluso il documentario, vive in una casa circondata da una vegetazione tipo Bosco Atro; in giardino ha un trenino che si trascina su rotaie arrugginite arrancando attraverso un percorso che simboleggia la vita intrauterina e il trauma della nascita. In casa non ci sono pareti o mobili privi dei suoi disegni in scale di grigio, opere che evocano paure profonde, relative alla morte, al sesso, alla natura del male. Giger stesso - devo dirlo a costo di essere politicamente scorretto - è inquietante; e il fatto che serva ai suoi ospiti il tè coi pasticcini non dissolve questa impressione, anzi.

 
H.R. Giger nella sua sobria sala da pranzo



Le altre due pellicole, No Man Beyond This Point e What We Do in the Shadows sono mockumentary, falsi documentari.

Il primo è, a mio avviso, un perfetto esempio di fantascienza sociologica intelligentemente unita a un'ambientazione ucronica e, appunto, alla forma documentaristica. La narrazione procede su due binari: quello storico illustra, attraverso testimonianze e interventi di studiose, gli eventi e le circostanze che a partire dal 1953 hanno portato il mondo attuale ad essere abitato quasi soltanto da donne. A questa esposizione si alterna una sorta di "mockudrama", che racconta la vita e le vicende personali del trentasettenne Andrew Mayers, l'uomo più giovane del pianeta, collaboratore domestico della famiglia di Iris e Terra. Leggero e dinamico, pieno di trovate divertenti e credibili, il film sfrutta appieno le potenzialità documentaristiche, illustrando la ricchezza di dettagli dell'ipotesi controfattuale e del suo svolgimento, ma evitando allo stesso tempo l'intollerabile arbitrarietà degli "spiegoni" tipici delle narrazioni (letterarie o cinematografiche) che hanno tante buone idee e poche occasioni credibili di farne un resoconto. Qui lo spiegone fa parte del gioco, è ricercato, e quanto più è dettagliato, complesso, tanto più risulta apprezzabile. Chi ha presentato il film in sala si domandava se fosse un'utopia femminista o una distopia maschilista. Nessuna delle due: è una distopia tout court. Ma la struttura dell'opera punta a mostrare come questa situazione sia data dall'azione combinata di un ribaltamento sull'asse del genere accentuato da un'estrapolazione iperbolica. Un caso di straniamento tipico della fantascienza, che consente di guardare dal di fuori il proprio mondo empirico proprio grazie al suo doppio deformato. Di rendersi conto degli elementi distopici della società attuale, in cui le donne sono ancora emarginate lavorativamente e poco rappresentate nei luoghi in cui si prendono le decisioni. Ovviamente la "morale della favola" era chiara sin dall'inizio, ma la qualità tecnica, i risvolti della trama, la capacità di evitare il tono didascalico hanno reso perfettamente godibile quella che rischiava di essere una "favola con la morale". Da appassionato di fantascienza innanzitutto letteraria non posso che concludere citando lo stupendo racconto di Catherine L. Moore, Greter than Gods, del 1939, al centro del quale c'è un point of divergence che ha da un lato un mondo tutto al femminile (alle cui caratteristiche avrebbe potuto tendere anche quello del documentario), dall'altro un mondo tutto al maschile.




Il secondo falso documentario, lungometraggio più votato dal pubblico del S+F e vincitore del premio per la miglior sceneggiatura al Torino Film Festival, è più simile a una sitcom. Vi si descrivono le vicende e la difficile convivenza di Viago, Vladislav, Deacon e Petyr, vampiri provenienti da epoche disparate e tra loro diversissimi che abitano sotto lo stesso tetto in una villa di Wellington in Nuova Zelanda. Il dandy Viago è sinceramente innamorato di una donna novantenne, non vuole bere da bicchieri sporchi, tratta bene le sue vittime e mette gli asciugamani sul divano prima di assaltarle, per non sporcare. Deacon, poco di buono, collerico, non vuole lavare i piatti e cerca sempre la rissa coi licantropi. Vladislav, signore feudale in stile transilvano, un tempo maestro di torture, ipnosi e metamorfosi, ha perso gran parte dei suoi poteri a causa di un temibile avversario soprannominato La Bestia. Poco si sa, infine, di Petyr, plurimillenario di parvenze nosferatesche, se non che vive ancora in una bara di pietra e che la sua inquietante silhouette appariva già nell'arte egizia.
What We Do in the Shadows è un film eccellente, geniale, in cui si ride molto, ma di un riso che poi si scopre essere ghigno. Perché le situazioni sono - usiamo questo termine quando è corretto - kafkiane, ovvero assurde e grottesche ma presentate con la massima naturalità e neutralità. E anche qui la forma documentaristica aiuta molto: sapere che dietro alla telecamera c'è qualcuno disposto a sospendere l'incredulità, il giudizio e la paura consente allo spettatore di fare lo stesso, entrando nell'orrenda, sanguinaria ma allo stesso tempo banale, monotona quotidianità delle creature della notte.

I primi sei minuti del mockumentarty vampiresco

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