Il manifesto di quest'anno, di Mario Alberti
Dopo un'esperienza di
partecipazione pluriennale (in qualche caso anche nello staff), ho capito di amare follemente i cortometraggi, forse
perché, come i racconti brevi in letteratura, colgono uno degli
aspetti della fantascienza e in generale del fantastico che
preferisco: quello di avere "l'idea" come eroe, come
protagonista. Ma certamente anche perché io sono uno spettatore
capriccioso che si stufa facilmente e vuole sempre vedere contenuti e
stili nuovi in un susseguirsi a perdifiato. O forse perché dinanzi a
certe pellicole di centodieci minuti vorrei prendere il regista o il
produttore per il bavero e gridargli, coi lucciconi agli occhi,
"potevi fare un corto perfetto! perché, perché hai voluto fare
un film inutile?!".
Di quasi una trentina di
corti che ho potuto vedere, almeno una decina erano veramente
memorabili. E oltre a The Kármán
Line
(vincitore del Méliès d'argent nonché premio del pubblico,
poeticissimamente allegorico), segnalo The
Shaman
(un science-fantasy che unisce tecnologie belliche futuristiche e
trance sciamanica musicalmente indotta), The
Nostalgist
(che mi ha fatto pensare a uno scrittore Premio Urania che apprezzo
molto e che agghinda con abiti secenteschi un futuro altrimenti
indecente e intollerabile) e Ghost
Train
(in stile Bradbury non fantascientifico, con bambini inquietanti e
inquietati in contesto "scary luna park").
The Karman Line, cortometraggio premiato dal pubblico
La
passione per i corti forse mi ha distolto un po' dai lungometraggi,
ma non tanto da impedirmi di vederne una dozzina. E a mio avviso (ma
ho scoperto di non essere il solo a pensarla così) le sorprese di
quest'anno sono documentaristiche. Per vero, ma soprattutto per
finta.
Come
documentario "vero" (acconsentiamo per un momento che una
qualsiasi narrazione possa esser tale) ho apprezzato Dark
Star - L'universo di HR Giger.
Vista la levatura del protagonista e la natura delle di lui opere,
non credo che la regista abbia dovuto giocare le sue carte migliori
per rendere questo documentario affascinante e disturbante. Il
disegnatore svizzero, famoso per gli effetti speciali di Alien
e scomparso poco prima di veder concluso il documentario, vive in una
casa circondata da una vegetazione tipo Bosco Atro; in giardino ha un
trenino che si trascina su rotaie arrugginite arrancando attraverso
un percorso che simboleggia la vita intrauterina e il trauma della
nascita. In casa non ci sono pareti o mobili privi dei suoi disegni
in scale di grigio, opere che evocano paure profonde, relative alla
morte, al sesso, alla natura del male. Giger stesso - devo dirlo a
costo di essere politicamente scorretto - è inquietante; e il fatto
che serva ai suoi ospiti il tè coi pasticcini non dissolve questa
impressione, anzi.
H.R. Giger nella sua sobria sala da pranzo
Le
altre due pellicole, No
Man Beyond This Point
e What We Do in
the Shadows
sono mockumentary,
falsi documentari.
Il
primo è, a mio avviso, un perfetto esempio di fantascienza
sociologica intelligentemente unita a un'ambientazione ucronica e,
appunto, alla forma documentaristica. La narrazione procede su due
binari: quello storico illustra, attraverso testimonianze e
interventi di studiose, gli eventi e le circostanze che a partire dal
1953 hanno portato il mondo attuale ad essere abitato quasi soltanto
da donne. A questa esposizione si alterna una sorta di "mockudrama",
che racconta la vita e le vicende personali del trentasettenne Andrew
Mayers, l'uomo più giovane del pianeta, collaboratore domestico
della famiglia di Iris e Terra. Leggero e dinamico, pieno di trovate
divertenti e credibili, il film sfrutta appieno le potenzialità
documentaristiche, illustrando la ricchezza di dettagli dell'ipotesi
controfattuale e del suo svolgimento, ma evitando allo stesso tempo
l'intollerabile arbitrarietà degli "spiegoni" tipici delle
narrazioni (letterarie o cinematografiche) che hanno tante buone idee
e poche occasioni credibili di farne un resoconto. Qui lo spiegone fa
parte del gioco, è ricercato, e quanto più è dettagliato,
complesso, tanto più risulta apprezzabile. Chi ha presentato il film
in sala si domandava se fosse un'utopia femminista o una distopia
maschilista. Nessuna delle due: è una distopia tout court. Ma
la struttura dell'opera punta a mostrare come questa situazione sia
data dall'azione combinata di un ribaltamento sull'asse del genere
accentuato da un'estrapolazione iperbolica. Un caso di straniamento
tipico della fantascienza, che consente di guardare dal di fuori il
proprio mondo empirico proprio grazie al suo doppio deformato. Di
rendersi conto degli elementi distopici della società attuale, in
cui le donne sono ancora emarginate lavorativamente e poco
rappresentate nei luoghi in cui si prendono le decisioni. Ovviamente
la "morale della favola" era chiara sin dall'inizio, ma la
qualità tecnica, i risvolti della trama, la capacità di evitare il
tono didascalico hanno reso perfettamente godibile quella che
rischiava di essere una "favola con la morale". Da
appassionato di fantascienza innanzitutto letteraria non posso che
concludere citando lo stupendo racconto di Catherine L. Moore, Greter
than Gods, del 1939, al centro del quale c'è un point
of divergence che ha
da un lato un mondo tutto al femminile (alle cui caratteristiche
avrebbe potuto tendere anche quello del documentario), dall'altro un
mondo tutto al maschile.
Il
secondo falso documentario, lungometraggio più votato dal pubblico
del S+F e vincitore del premio per la miglior sceneggiatura al Torino
Film Festival, è più simile a una sitcom. Vi si descrivono le
vicende e la difficile convivenza di Viago, Vladislav,
Deacon e Petyr, vampiri provenienti da epoche disparate e tra loro
diversissimi che abitano sotto lo stesso tetto in una villa di Wellington in Nuova
Zelanda. Il dandy Viago è sinceramente innamorato di una donna
novantenne, non vuole bere da bicchieri sporchi, tratta bene le sue
vittime e mette gli asciugamani sul divano prima di assaltarle, per non sporcare.
Deacon, poco di buono, collerico, non vuole lavare i piatti e cerca
sempre la rissa coi licantropi. Vladislav, signore feudale in stile
transilvano, un tempo maestro di torture, ipnosi e metamorfosi, ha
perso gran parte dei suoi poteri a causa di un temibile avversario
soprannominato La Bestia. Poco si sa, infine, di Petyr, plurimillenario di
parvenze nosferatesche, se non che vive ancora in una bara di pietra e che la sua inquietante silhouette
appariva già nell'arte egizia.
What We Do in the Shadows è un film eccellente, geniale, in cui si ride molto, ma di un riso che poi si scopre essere ghigno. Perché le situazioni sono - usiamo questo termine quando è corretto - kafkiane, ovvero assurde e grottesche ma presentate con la massima naturalità e neutralità. E anche qui la forma documentaristica aiuta molto: sapere che dietro alla telecamera c'è qualcuno disposto a sospendere l'incredulità, il giudizio e la paura consente allo spettatore di fare lo stesso, entrando nell'orrenda, sanguinaria ma allo stesso tempo banale, monotona quotidianità delle creature della notte.
I primi sei minuti del mockumentarty vampiresco
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