domenica 8 maggio 2016

Mondi vicinissimi: Franco Battiato e la fantascienza /3

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GLI ANNI OTTANTA (e il resto)

Gli anni Ottanta, per Battiato, iniziano nel 1979 con L’era del cinghiale bianco, scelta di campo, come si diceva, all’insegna della commistione tra pop e cantautorato colto, oltre che di una nuova casa discografica: la EMI italiana.
Dell’anno successivo è Patriots, il primo album che riscuote un buon successo, per quanto generalmente ritenuto inferiore al precedente e al successivo. Niente di fantascientifico da segnalare nemmeno qui, direi.

L’album La voce del padrone, dell’81, è quello che fa conoscere Battiato al grande pubblico. Sette brani perfetti, tuttora tra i più noti del Maestro, eterogenei dal punto di vista testuale e musicale: vanno dal citazionismo pop (postmoderno?) di Cuccurucucù all’apparente nonsense di Centro di gravità permanente; dalla denuncia della società dei consumi e della parcellizzazione della cultura di Bandiera bianca al lirismo di Summer on a solitary beach o de Gli uccelli, i cui voli sono “codici di geometrie esistenziali” “che nascondono segreti del nostro sistema solare”.
Ma è con il brano Segnali di vita che Battiato precorre le tematiche cosmiche e fantascientifiche degli anni successivi. Alternando strumenti pop e ensemble classico diretto dal violinista Giusto Pio, Battiato indaga la distanza (e la vicinanza) tra l’immensità del cosmo e la pochezza dell’esistenza umana, bisognosa di evoluzione e ascesi. Quasi fosse un osservatore esterno, “nei cortili e nelle case all’imbrunire” Battiato non vede lo svolgersi di attività quotidiane ma, appunto, “segnali di vita”. La seconda strofa si apre con le parole “rumori che fanno sottofondo per le stelle”.
Il riferimento è molto probabilmente alla radiazione cosmica di fondo, la misurazione della quale confermò il modello inflazionistico dell’universo e valse il Nobel a Penzias e Wilson nel 1978. Prosegue coerentemente (!) Battiato: “Lo spazio cosmico si sta ingrandendo e le galassie si allontanano”. Questo straordinario brano è pervaso da un senso di inadeguatezza per un anelito troppo grande e un malinconico “stare adesso qui”, vissuto con insofferenza.


Del 1982 è l’album L’arca di Noè, dalla nota copertina tesa a raffigurare un paesaggio terrestre privo di vita, se non addirittura un pianeta alieno.


Il titolo è probabilmente un omaggio all’omonimo brano di Sergio Endrigo, classificatosi terzo al Festival di Sanremo del 1970.
Che Endrigo sia apprezzatissimo da Battiato – e che lo fosse proprio negli anni a cui risale il brano – è fuor di dubbio: lo confermano i sentiti rifacimenti di Te lo leggo negli occhi e Aria di neve nell’album Fleurs (1999) e di Era d’estate, in Fleurs 2 (2008), che il cantautore siciliano ama proporre anche durante i concerti. Presentata talvolta come filastrocca per bambini a causa del ritornello facile e allegro – i vari siti “Pianeta mamma” e simili a volte mettono i brividi – L’arca di Noè di Endrigo è una canzone profondamente tragica: un’apocalisse ecologico-tecnologica ha mutato radicalmente la vita e il volto del pianeta Terra e gli esseri umani sembrano ormai essere in ginocchio. Il verso “Che fatica essere uomo” è posto a chiusura delle due strofe, come un pugno allo stomaco. Segue il ritornello allegro “Partirà, la nave partirà. Dove arriverà? Questo non si sa. Sarà come l’arca di Noè: il cane, il gatto, io e te”. L’ottimistica conclusione è evidentemente ironica: quella proposta da Endrigo è una soluzione individuale, esclusivistica, una volontaria illusione di salvezza.



Guardando all’album di Battiato con queste premesse, sembra molto plausibile che la sua Arca di Noè sia un mezzo, concreto o metaforico/spirituale, in grado di traghettare il genere umano dall’attuale misera condizione ad una migliore. Una pratica mistica ascetica? Un nuovo stile di vita? O magari una nave generazionale, topos carissimo alla fantascienza?
A differenza di Fetus e Pollution, L’arca di Noè non è un concept album: il tentativo di trovare un filo conduttore a tutti i brani sarebbe quindi una forzatura. Ma più d’uno ha un carattere distopico o apocalittico, a partire dai due testi scritti da Tommaso Tramonti, pseudonimo di Henri Thomasson, scrittore e mistico francese. Come accadrà negli anni Novanta con Manlio Sgalambro, la collaborazione con pensatori, mistici, filosofi e quant’altro dà origine a testi che suonano più battiateschi di quelli di Battiato. Ecco innanzitutto Clamori:
Clamori nel mondo moribondo clamori nel mondo.
Ciuffi d'isotopi in mano, passeggio tra le particelle dei miei atomi: nuclei pulsari, neutroni e quasari. Il mondo è piccolo, il mondo è grande, e avrei bisogno di tonnellate d'idrogeno.
Infestati di ragnatele, pieni di minuscoli computers, mangiando farfalle giapponesi. Mosche giganti sputano dati dando il totale sui disoccupati.
Clamori nel mondo moribondo, clamori nel mondo.
Sangue nero di Harlem, manometri affollati a Wallstreet, nel fango delle cifre tutto se ne va.
Guerriglia nella giungla, ma sotto un tetto di palme, amore mio, lunga sarà la fine.
Sceicchi custodi di passaggi a livello nel deserto spargono lacrime di petrodollari. Sufi soffocati, mullah immobili nel silenzio delle sparatorie.
Clamori nel mondo moribondo, clamori nel mondo.



“Passeggio tra le particelle dei miei atomi” evoca una dimestichezza con la natura delle cose, una conoscenza scientifica del grande e del piccolo: pulsar, quasar, neutroni e nuclei, associati, al solito, in un grammelot pseudoscientifico. A questa conoscenza (che comprende la "teoria del caos" a cui forse si riferiscono le "farfalle giapponesi") non corrisponde una saggezza, da parte dell’uomo, nel vivere la sua vita: meccanizzato, invaso mentalmente e fisicamente dai suoi artefatti tecnologici, non può che praticare la guerra e la sopraffazione, a danno di chi questa saggezza potrebbe diffonderla e di chi, cercando di sfuggire alla dissennata contemporaneità “sotto un tetto di palme”, le sopravvivrà almeno un po’.

Segue L’esodo, sempre di Thomasson. L’incipit del brano è quanto mai esplicito:
Prima che la terza rivoluzione industriale provochi l’ultima grande esplosione nucleare, prepariamoci per l’esodo, il grande esodo, per noi, giovani del futuro.
E prosegue descrivendo la portata di questo esodo, che comporterà, tra l’altro la “fine dell’imperialismo degli invasori russi e del colonialismo inglese e americano”. Le masse di gente in movimento non costituiscono esse stesse l’esodo ma sembrano radunarsi in un unico luogo (“arriveranno da tutte le parti, dalle città e dalle campagne”) dal quale l’esodo avrà inizio. Si tratta forse dell’Arca di Noè del titolo: una colossale impresa spaziale destinata a portare l’uomo tra le stelle, alla ricerca di una nuova casa da abitare.




Un altro genere di apocalisse si può ascoltare ne La torre, canzonetta allegra ma un po’ ossessiva con testo stavolta di Battiato. Dopo un’introduzione in linea col giochino del “chi butteresti giù dalla torre?”, candidamente, il Nostro canta:
Ritorneranno dinosauri antidiluviani, una razza di super-rettili che si mangerà – trallalalalalà – i presentatori, specie quelli creativi che giocano ai quiz elettronici. Si mangerà chi fa ma non sa quel che fa.
In questo siparietto tra Godzilla e il Bulgakov de Le uova fatali, Battiato auspica per l’umanità una fine terrificante piuttosto che l’attuale deriva antropologica.

Curioso come L’arca di Noé sia stato recepito da alcuni quasi come un manifesto della “nuova destra” (vd. la recensione di Gianfranco Manfredi  su La stampa), apparentemente per il brano Radio Varsavia – soprattutto per il riferimento a “chi scappava in occidente” – e perché ne La torre l’imperialismo dei Russi viene citato prima del colonialismo americano. Dietro a questi, mi pare, futili motivi, si celano, oltre alla difficoltà ad interpretare la dimensione esistenziale dell’arte come tale e non come istanza politico-ideologica, anche l’insofferenza per un misticismo letto soltanto nella sua veste di irrazionalismo di destra e per una sfiducia in un’idea precostituita di progresso. In questo senso il brano incriminato è New frontiers, che si apre con i Madrigalisti di Milano che proclamano “l’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero”.

L’album Orizzonti perduti, eterogeneo e riuscitissimo, non riprende temi fantascientifici, ma si concentra sui ricordi d’infanzia e sulla distanza lirica tra essa e la vita contemporanea. Il brano con qualche spunto utile in questa sede è La musica è stanca, ancora di Thomasson, un inno alla vacuità del moderno che si esplica nell’arte quanto nella scienza. Memorabili i versi:
Adamo colse della frutta dall’albero della conoscenza, poi l’ultima mela cadde sulla testa procurando un ematoma a Newton.
Dopo Isaac Newton (che qualcuno dice primo scienziato e ultimo alchimista) la scienza non ha più prodotto alcun vero sapere.

Finalmente arriviamo, nel 1985, a Mondi lontanissimi, album dal quale prendono il nome questi articoli.



Il brano di apertura, Via Lattea, ha un impianto fortemente narrativo oltre che imitativo, magari anche solo nel materiale verbale, di una certa hard science fiction:
Ci alzammo che non era ancora l’alba pronti per trasbordare dentro un satellite artificiale che ci condusse in fretta alle porte di Sirio, dove un equipaggio sperimentale si preparava al lungo viaggio. Noi, provinciali dell’Orsa Minore, alla conquista di spazi interstellari e vestiti di grigio chiaro per non disperdersi, seguimmo certe rotte in diagonale dentro la Via Lattea.
Come raramente accade in Battiato, anche il video è di tipo narrativo, e in alcuni momenti è – incredibile a dirsi – aderente al testo: vi vediamo le “rotte in diagonale” (curvatura?) tracciate su una mappa stellare; il cantautore che, con una valigetta quasi da pendolare o commesso viaggiatore, passeggia su una superficie geotermicamente attiva; edifici freddi e anonimi, con pareti di cemento o a specchio; un malinconico addio da parte di una donna con un bambino.



In Mondi lontanissimi troviamo anche No time no space, l’altro testo spiccatamente fantascientifico di Battiato: la commistione tra science fiction e misticismo è, qui più che altrove, indissolubile.
Parlami dell’esistenza di mondi lontanissimi, di civiltà sepolte, di continenti alla deriva. Parlami dell’amore che si fa in mezzo agli uomini, di viaggiatori anomali in territori mistici. Di più. Seguimmo per istinto le scie delle comete come avanguardie di un altro sistema solare. No time, no space, another race of vibraition…
Le prime parole fungono da premessa: un’estensione spaziale e temporale del contesto. In tale ambito allargato hanno luogo relazioni amorose e viaggi anomali e mistici, in una prospettiva sapienziale e messianica (poche immagini sono più chiare della sequela di una cometa!). Ma il mezzo di questo viaggio non è né il tempo né lo spazio, ma un’altra sorta di vibrazione, di natura interiore ma non meno percorribile dello spaziotempo. Da un lato non posso biasimare chi reputa mondi lontanissimi e comete come nient’altro che una patina fantascientifica che copre aneliti spirituali e religiosi; dall’altro, vedo in questa ricerca di parallelismo tra il macrocosmo empirico e quello interiore più di una consonanza con l’inner space ballardiano.
Il video di No time no space, secondo me, è geniale. Non so se sia solo il sapore retrò a consentire la sua fruizione in tono ironico, o non aiuti piuttosto il suo non prendersi mai troppo sul serio, ma si ha l’impressione che già negli anni Ottanta Battiato sapesse di “fare molto anni Ottanta” nel senso in cui lo intendiamo oggi.



Di Mondi lontanissimi fanno parte anche i brani Personal computer e I treni di Tozeur. Il primo lamenta ancora una volta l’abisso tra la modernità scientifico-tecnologica e la sostenibilità e felicità della condizione umana. Nel secondo invece – presentato da Battiato e Alice all’Eurofestival del 1984 – c’è un solo passo “fantascientifico”, che però può stravolgere il significato di tutta la canzone: “nelle chiese abbandonate si preparano rifugi e nuove astronavi per viaggi interstellari”. Se si dà per buona l’interpretazione letterale, allora il setting scelto da Battiato è qualcosa di simile a un post-apocalittico in cui il genere umano pian piano si sta risollevando: le chiese abbandonate vengono adibite a rifugi in via precauzionale; vi vengono costruite delle “nuove astronavi”, che vengono magari dopo quelle utilizzate per “l’esodo” da chi poteva permetterselo. In tal senso va anche letta la presenza di altri “rifugi”: “in una vecchia miniera distese di sale e un ricordo di me”: il ritorno di qualcuno nei luoghi in cui ha trascorso i momenti più bui. Ma tutto ciò è solo congettura. L’interpretazione metaforica delle astronavi e dei viaggi interstellari è ancora una volta di natura mistica, e si ritorna qui ai primissimi album del Maestro: con la pratica spirituale e ascetica le anime trovano conforto (rifugi) e si preparano ai viaggi interstellari, che compiranno nella loro trasmigrazione finalizzata alla reincarnazione su mondi lontani.



Dopo Mondi lontanissimi, Battiato tornerà molte altre volte alla fantascienza, alle grandezze cosmiche, ai viaggi interstellari, agli inner e agli outer space, ma di rado così esplicitamente e mai secondo l’ispirazione così diffusa di questo album o così coerente (per quanto difficile) di Fetus e Pollution.
Di molti altri testi si potrebbe fare un’analisi puntuale, ma diventerebbe ozioso, perché quasi tutto può essere interpretato con chiavi di lettura già date fino ad ora. Dal punto di vista della fantascienza, di nuovo e notevole segnalo ancora solo Shock in my town, dall’album Gommalacca (1998), esperimento che credo di poter definire “cyberpunk”.
Per il resto Battiato continua a muoversi tra pop, classica e elettronica; tra visioni mistiche, voli pindarici, ethos lirico e nonsense; tra passati vissuti nostalgicamente, futuri improbabili, e – sempre più autenticamente politico – presenti che nella sua personale interpretazione (Ermeneutica) sono già distopici:
Tutte le macchine al potere, gli uomini a pane e acqua

Per approfondire o sentire altre campane:
Battiato nello spazio
Domenico Ruoppolo e AA.VV., "Franco Battiato. Evadere le regole dell'universo"
Franco Fabbri, "Un pianeta proibito: il cinema di fantascienza e la musica elettronica"

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